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La Cina prende di petto il Covid e la libertà d’informazione

Il vecchio presidente Trump ha tentato di tutto affinché il 2020 venisse tramandato come l’anno del virus cinese, e i cinesi hanno fatto di tutto per spazzare via da sé non solo il virus, ma anche i sospetti che lo hanno generato e diffuso iniziando da i medici che –a suo tempo– denunciarono la strana polmonite che ammazzava la gente come mosche, fino agli ultimi casi di condanna di blogger che hanno documentato –senza averne titoli riconosciuti dal Governo– le strade deserte di Wuhan, i suoi ospedali affollati e i metodi autarchici della polizia nell’impedire che filmati e immagini facessero il giro del mondo.



Naturalmente, in un mondo globalizzato, la censura totale è un’utopia e le fotografie, le videochiamate con brevi video sono finiti nella rete, denunciando e commentando alla meglio ciò che avveniva nella Cina del contagio in contrapposizione agli atteggiamenti della polizia Cinese pronta ad adottare metodi coercitivi mei confronti della già scarsa libertà sociale. Le imposizioni e i controlli al limite del rispetto dei diritti umani hanno, dopo pochi mesi, raggiunto lo scopo che il governo del Dragone si era prefissato: cancellare dalle loro terre l’infezione e chi ne denunciava la cattiva gestione.


Un successo che, nel mettere le catene alla seconda ondata in Cina, ha riacceso i motori della sua economia sottovalutando l’alto prezzo pagato in termini di vite umane che il gigante asiatico mette in contro ogni volta che bisogna prendere di petto un problema sanitario, economico o sociale. Pechino, infatti, ha preso anche di petto la recente epidemia di aviaria –di cui poco o niente si è saputo– scoppiata in una fattoria cinese di Shaoyang, non lontano dall’epicentro del Coronavirus, ordinando l’abbattimento di oltre diciassettemila polli per evitare la trasmissione dell’infezione. Come ha preso di petto le proteste di Hong Kong, recintando con soldati armati il perimetro della città Stato e come prende di petto i dissidenti politici e i giornalisti ribelli al regime facendoli sparire dalla circolazione, come è avvenuto per Chen Qiushi e Fang Bin la cui presenza è stata, in seguito, segnalata in un carcere cinese.


Trattamenti inaccettabili riservati ai giornalisti e ai freelance cinesi che vogliono raccontare la verità, almeno la loro verità, secondo le autorità di Pechino, in base all’idea di società a cui l’occidente ci ha abituato. Sorte ingrata toccata anche alla blogger Zhang Zhan, un ex avvocato di Shanghai, precipitatasi a Wuhan per raccontare ciò che stava accadendo e, recentemente, condannata a quattro anni di carcere.

Atteggiamenti quotidiani in stati totalitari in cui accadono le stesse cose, è caldo l’omicidio del giornalista e scrittore saudita Jamal Khashoggi ucciso nel consolato del suo paese a Istanbul. Eppure secondo i governi dei paesi coinvolti ciò accade perché i condannati infrangono le leggi dello Stato e in qualsiasi parte del mondo commettere atti illegali è reato punibile con condanne più o meno pesanti, ma spesso al limite del rispetto dei diritti umani specialmente in un paese come la Repubblica Popolare Cinese dove il termine anacronistico dittatura democratica è scritto nella sua Carta Costituzionale.

Mario Volpe



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