La Fiamma spezzata di Giovanni Taranto (pubblicato da Avagliano Editore) si snoda come in una sequenza cinematografica. E ti avvince dalla prima all’ultima pagina in una suspense senza tregua. La chiave di lettura del resto si può riscontrare in due citazioni dell’autore stesso che rinviano al cinema.

“Adattarsi, improvvisare, raggiungere lo scopo” il motto del protagonista, il capitano dei carabinieri Giulio Mariani, è stato preso in prestito dal sergente dei marines Gunny Highway, impersonato da Clint Eastwood, nel famoso film americano. E di Gunny Mariani ha la grinta e la capacità di dominare gli eventi.


Ma non basta. Al cinema Taranto ci rinvia con il richiamo esplicito ad un altro regista, George Andrew Romero, autore della saga sui Morti viventi.

Il capitano Mariani, investito dalle alte sfere di un compito delicatissimo e segreto, si trova a dialogare con un morto. Uno scheletro – tirato fuori dopo sei anni dalla sua morte violenta da un sacco della spazzatura, chiuso in un loculo della colombaia di un cimitero custodito da tristi figuri – è il coprotagonista del dramma. L’investigatore scava in quel buco nel cranio, inferto da un colpo di pistola, che gli altri non riescono nemmeno a vedere, tanto da dubitare dell’identità del dissepolto, si intrufola in quei denti spezzati   e li lascia parlare, fino ad attribuirgli una portata extraodontoiatrica e a vederci una metafora del lato oscuro della vicenda che gli ispira ragioni e sentimenti.

I sentimenti vanno dall’indignazione, alla pietas, in un crescendo di toni come in un diapason fino all’empatia e alla fraterna compassione. Quali mani empie hanno osato gettare alla rinfusa in un sacco della spazzatura i resti mortali di un giovane carabiniere, senza rispetto per l’uomo e senza riguardo per la divisa che indossava? Proprio questa sacrosanta indignazione, nel momento in cui si riversa sull’autore di quel gesto scellerato, dissacratore degli onori funebri che in ogni famiglia sono ritenuti inviolabili, è il primo indizio che porta alla risoluzione del mistero in cui sembra avvolta la tragica fine del povero giovane.


Indignatio facit versum, scrisse Giovenale, il più arrabbiato dei poeti satirici latini. E traduco, parafrasando: l’indignazione è anche la musa della performance di Giovanni Taranto. L’indignazione del capitano è la stessa dello scrittore Taranto contro il malcostume, l’ingiustizia, la violenza dominante nei paesi vesuviani.

La scena dell’ispezione del cranio si svolge nella fredda oscurità di una camera mortuaria. Il cimitero, le tombe, lo scheletro, il buio, ci sono tutti gli elementi di un noir.  Eppure la narrazione non corre sul filo della paura, dell’horror, come nei film del citato Romero.  Bensì sull’empatia che è generata dalla pietas, vale a dire dalla compassione, dalla sentita partecipazione alla dolorosa vicenda umana.  I poveri resti di quello che in vita fu un giovane figlio dell’Arma, ordinati da mani pietose con religiosa devozione sul freddo marmo, nell’intento di restituire al defunto quella dignità che gli è stata negata, non hanno niente di cupo.  La cifra stilistica del racconto non è da ricercare in Romero e nemmeno nei carmi di Ossian di romantica e foscoliana memoria.  Lo scheletro non si trasforma in uno zombi sanguinario che chiede vendetta per la sua morte violenta.  Il capitano riversa in quelle povere ossa la sua umanità. E al lettore appaiono non un morto ed un vivo. Bensì due uomini, uniti in un afflato fraterno.


Questo spirito di umana partecipazione è il primo impulso ad accettare un compito che ad altri colleghi appariva gravoso, tanto da archiviare il caso senza approfondire l’indagine. A mettere in moto l’azione è la madre del povero carabiniere, distrutta dal dolore, dall’età avanzata e da una malattia incurabile. Pure nella sua fragilità, questa donna ha una forza che riesce a muovere i macigni dell’indifferenza e dell’ottusità.  Esterina Sorrentino non crede al suicidio del figlio, anzi non crede nemmeno alla sua morte e si ostina, disperatamente, a considerarlo vivo, allontanato dalla famiglia per conto dei servizi segreti dai quali sarebbe stato reclutato. Nel momento in cui il capitano legge la sua lettera, sgrammaticata, ma circostanziata, si sente invaso dall’amore che ha dettato quelle righe.  E decide di indagare per scoprire la verità. Il coraggio di questa donna che, sebbene vecchia e malata, non si è rassegnata alla versione ufficiale dei fatti e osa sfidare le alte cariche dello Stato, è contagioso.  È una mater dolorosa. E specialmente alla fine, quando deve riconoscere che il figlio è morto e quelle povere ossa, purtroppo, sono la sola cosa che resta di lui, appare come la Madonna che piange il Cristo morto.   Questa presenza femminile, forte del suo dolore di madre, è la luce in fondo al baratro che illumina la strada del capitano verso la verità e la giustizia.

Il tono del racconto, al di là delle vicende di carattere giudiziario, scaturisce dalla consonanza o dissonanza tra il protagonista ed i personaggi che ruotano intorno a lui. E non sono solo persone: i buoni e i cattivi, come in ogni romanzo. Sono anche cose, oggetti, usi e tradizioni: gli scherzi di caserma, il suono delle ciaramelle, i pastori del presepe, il rito del caffè e tanti altri elementi di colore o distintivi di un carattere o di un altro che il lettore troverà nel libro. Quello che vorrei sottolineare è questo: usi e tradizioni, non stanno nel racconto come elementi esornativi, note di folclore, o spunti comici. Sono la sostanza stessa del racconto.  Sono creature ritratte da Taranto direttamente dalla vita quotidiana.


In tutto questo brulichio di vita vera un ruolo determinante è costituito dal paesaggio.  La terra vesuviana – con il suo mare, il suo cielo, così belli quando sono belli, così orrendi, quando l’uomo li deturpa –  nel libro ha un’anima, uno spirito che aleggia nell’atmosfera ed entra nelle persone e nelle cose e muove le parole e i fatti.  Il Vesuvio, la marina ai piedi del vulcano, tutto il dolce e l’amaro di questo paese, mai menzionato con il suo vero nome, prima che nella scrittura, sono entrati nell’ animo di Giovanni Taranto, fanno parte del suo background culturale. E dettano accenti e toni che toccano tutte le corde del cuore umano.  In questa commedia umana che passa per tutti gli stili della tradizione letteraria, da quello tragico, a quello comico, da quello alto a quello umile, ognuno troverà elementi da apprezzare a seconda della propria sensibilità e cultura. Come avviene per ogni libro scritto da uno scrittore vero. Perché Giovanni Taranto, con questa sua prima prova letteraria, si è rivelato uno scrittore- scrittore, così come già è un giornalista – giornalista.

Vedi, Giovanni, rispondendo alla tua dedica alla sottoscritta sulla mia copia del tuo libro “CARA MARIA, GRAZIE: È ANCHE IN VIRTÙ DELLE LINGUE ANTICHE CHE MI HAI INSEGNATO, SE OGGI HO POTUTO TENTARE DI USARNE AL MEGLIO UNA VIVA”. Ti dico che ci sei riuscito perfettamente.

Ho apprezzato la tua scrittura al di là del racconto.  Lo confesso, infatti, io non amo molto i libri cosiddetti “gialli”.  In questo ultimo periodo poi se ne sfornano tanti, come i casatielli di Pasqua: chissà, forse complice la pandemia, che costringe uomini e donne a impastare farina e parole! Perciò ho aperto il libro con una certa riluttanza, solo per curiosità. Perché era di Giovanni Taranto, uno dei miei allievi più bravi, un giornalista di frontiera, di cui ho sempre apprezzato la forma oltre che i contenuti.


Poi dopo le prime pagine, mi sono talmente immersa nella lettura che… ho dovuto buttare due pentole, dimenticate sul fuoco, con tutto il cibo messo a cucinare, carbonizzato!  E questo in due giorni diversi. Sono rimasta senza cena. Sì, ho ripetuto lo stesso errore fino alla fine del libro. Ed era da tanto che non mi accadeva. Perché la pandemia con i suoi infiniti divieti: vietato il cinema, vietato il teatro, vietato il ristorante, vietato incontrare amici, vietato presentare libri. E cito solo i divieti che, per una come me che vive di queste cose, sono mortiferi. Una sola cosa mi è permessa: stare in casa mia.  E qui posso vedere la televisione – di per sé una palla –  o leggere un libro. E pure questo, che è sempre stato un piacere, poiché ora appare come un obbligo, una precettazione, non di rado mi causa fastidio. E mi è accaduto con vari libri, messi da parte dopo le prime pagine. Ma non con questo. Il tuo libro mi ha restituito il piacere della lettura. Per questo ti sono molto grata. E continua a scrivere. Aspetto il prossimo.

Maria Elefante
Dipartimento di studi umanistici
Università Federico II, Napoli



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