Il nono appuntamento di questa rubrica, curata da Raffaele Pisacane, si occuperà, senza pretendere di essere esaustivo, del postmoderno e oltre il postmoderno che riguarda anche la contemporaneità nel mondo dell’arte, e che non può affatto essere uno sguardo definitivo, ma evidentemente un’apertura infinita perché l’Arte è in continuo e inarrestabile divenire.
Insomma, chi ha la curiosità di saperne di più sul Postmoderno e sul dopo il Postmoderno nella Storia dell’arte, che ancora va scrivendosi, si immerga in questa marea di scritti, citazioni e assunti di artisti, critici e storici dell’arte, oltre che sociologi e accademici, che ci dotano di quegli strumenti critici che, come sempre diciamo, sono necessari alla comprensione, alla discussione e alla riflessione sul tema trattato.
Articoleremo questo nono incontro in tre parti per esigenze legate alle molteplici fonti che si sono occupate e hanno indagato il mondo e il sistema dell’arte, in questo caso, più vicino ai nostri giorni cercando di far fronte, senza smarrirsi, alla gran messe di nomi, periodi e stili che affollano il postmoderno e il suo dopo, in un’impresa comunque non agevole.
Ma bando alle divagazioni e, come detto innanzi, immergiamoci perché per chi ha passione vera anche “il naufragare è dolce in questo mare”.
PRIMA PARTE: IL POSTMODERNO
Oggi siamo di fronte ad una continua tessitura e trasformazione di opere d’arte visiva dove ogni lavoro non accenna al futuro, se non nella misura di una ansiosa instabilità, e non si raccorda con il passato, se non nell’utilizzo di alcuni materiali, strumenti e tecniche.
Ma le arti occidentali sono state, e in parte ancora lo sono, per lo più strutturate in movimenti artistici, usando principalmente criteri culturali ed estetici.
In questo solco le arti occidentali, e soprattutto il postmoderno, reagisce al rigore teorico e formale delle neoavanguardie della seconda metà del XX secolo e recuperano solo in parte e apparentemente le tecniche della tradizione, ossia pittura e scultura.
Vengono rivisitate le immagini della storia dell’arte del passato, del mondo globalizzato e del consumo, sovvertendone, in ogni caso, i fini o interferendo con la storia e i media.
Mentre la razionalità del “moderno” si è impegnata, in parte, sulla linea cosiddetta analitica nonché a redimere la vita con l’arte, e il “neoavanguardistico” ha approfondito e si è ingegnata sul senso e la profondità del discorso sull’arte (del supporto, dello spazio, della forma, della materia, del colore), il “postmoderno” ha lavorato sul simulacro, sulla apparenza, sulla facciata, riscoprendo l’arte in un modo diverso e spesso “senza pretenderne alcun senso”.
È un nuovo linguaggio in risposta e opposizione anche alle forme e ai supporti dell’arte minimal e concettuale così razionale, pulita e asettica (si intenda anche arte spazialista, riduzionistica, analitica…).
“Il tutto in favore di un’opera che assuma al proprio interno un impianto di carattere prevalentemente decorativo”.
Il postmoderno, insomma, per dirla con Arthur C. Danto, è “l’affrancarsi da una visione lineare e progressiva della Storia che ha portato gli artisti ad agire fuori da gruppi e tendenze”.
Infatti, Arthur C. Danto utilizza il termine “poststoria” anziché postmoderno.
Questo clima postmoderno, quindi, ha dato vita nel mondo ad artisti, a gruppi eterogenei e multistilistici teorizzati e talvolta coccolati da critici o storici dell’arte o intellettuali e dai quali, come sempre, molti artisti si sono dissociati perché refrattari alle etichette.
Passando, quindi, ad esplorare con una visione sferica tutto ciò che ha riguardato il postmoderno nel mondo occidentale dell’arte e navigando senza una meta precisa, se non quella della conoscenza del reale con l’assenza di un giudizio, e con un’osservazione neutrale senza la pretesa di un sapere, possiamo guardare a ciò che è accaduto nei vari paesi del globo terrestre euro-americano.
Partendo dagli Stati Uniti, diversi artisti hanno volto la loro ricerca in una direzione definita PATTERN PAINTING, con decorazioni floreali o geometriche realizzate con svariati materiali come tessuti colorati, pittura su tela o oggetti d’uso, d’arredamento, terracotta, materiali sintetici… (Kushner, Zucker, Ripps…).
Non c’è in tale forma e linguaggio espressivi alcun intento conscio volto a dare corpo ad un valore ideologico o ad una protesta sociale.
Figure, segni, scritti, colori attraverso pennarelli indelebili e bombolette spray si sono imposti liberamente e si sono confrontati con il reale e tanti altri segni caratterizzanti la ricerca artistica.
A questi artisti si sono aggiunti quelli della NEW IMAGE, che hanno recuperato la pittura come pratica mediata dalle immagini tecnologiche sostituendo al mondo reale il mondo fittizio delle apparenze e delle immagini mediali, oppure hanno proposto pitture e sculture di derivazione primitiva oppure pop utilizzando elementi sia di matrice figurativa che geometrica. (Basquiat, Keith Haring, James Brown, Ronni Cutrone…).
In ITALIA, invece, abbiamo assistito al movimento della TRANSAVANGUARDIA, teorizzato dal critico Achille Bonito Oliva, che ha inteso recuperare la pittura come linguaggio che sappia ritornare ai suoi motivi interni per riproporre un immagine riesumandola dalla storia dell’arte, dalla archeologia, dalla commedia dell’arte, dalla illustrazione e da personaggi popolari, vignette erotiche… (Cucchi, Chia, Paladino, Clemente, De Maria, Germana’, Tatafiore).
Il gruppo del MAGICO PRIMARIO, che hanno inteso recuperare una profondità nell’opera che affonda le proprie radici nella psicoanalisi e nel materiale archetipico dell’inconscio collettivo. (Davide Benati, Nino Longobardi, Stephen Cox, Notargiacomo, Valerio Cassano…).
La cosiddetta NUOVA SCUOLA ROMANA, (vicina per certi aspetti al gruppo del Magico Primario), caratterizzato dalla ricerca delle proprie potenzialità espressive più profonde attraverso il mezzo pittorico o plastico. (Dessì, Ceccobelli, Pizzi Cannella, Domenico Bianchi, Tirelli, Giuseppe Gallo, Nunzio…).
In FRANCIA diversi artisti, con riferimento a linguaggi quali la transavanguardia, il graffitismo, l’art brut di Dubuffet, il gruppo Cobra, hanno proposto una pittura segnica, molto cromatica e fumettistica. (Alberola, Blais, Blanchard, Di Rosa…).
Si ripete, tale elencazione di stili è solo il frutto delle teorizzazioni o delle letture deduttive coeve o posteriori di critici, storici e intellettuali, a cui solo alcuni artisti hanno partecipato consapevolmente, mentre molti altri sono stati e sono, perché ancora in vita, refrattari ad ogni etichetta.
Tra l’altro, si ripete, come diceva Arthur C. Danto, artista, critico d’arte e filosofo, non solo sarebbe il caso di parlare di poststoria anziché di postmoderno, ma anche fare a meno di inquadramenti formali e stilistici.
Invero, per Danto, dagli inizi degli anni settanta numerosi artisti hanno emulato le opere d’arte del passato, con una rilettura e realizzazione contemporanea dove veniva messo in discussione il concetto di evoluzione del tempo, rompendo con la ricerca artistica che storicamente era stata sino a quel momento portata avanti con l’arte “moderna” e poi “contemporanea”.
Da qui generando una “poststoria artistica” priva di uno stile e di una forma predeterminata ed evolutiva, se non quella della emulazione nell’atemporalità.
Questa definizione fa riferimento all’ampio ventaglio di linguaggi ed espressioni artistiche che a partire dalla fine degli anni settanta convivono nello scenario contemporaneo sottraendosi ad ogni manifesto o tesi che stabilisca le caratteristiche che ne determinano l’aderenza allo spirito del tempo.
Quindi, come si è evidenziato in apertura di questo scritto, è “l’affrancarsi da una visione lineare e progressiva della Storia che ha portato gli artisti ad agire fuori da gruppi e tendenze”.
E sempre Danto, con riferimento alle intuizioni di Duchamp e Warhol nonché all’interrogativo cosa sia un’opera d’arte, sottolinea che oramai:
“l’opera d’arte è un significato incarnato” vale a dire “un oggetto che riguarda qualcosa e ne incarna il significato”.
E Demetrio Paparoni, critico d’arte, sul punto chiarisce che la comprensione dell’opera trova così un passaggio obbligato in una comparazione analitica che non prevede necessariamente il ricorso a parametri estetici.
L’opera d’arte è ormai il centro propulsivo di una serie di interrogativi che scaturiscono dalla sua nuova identità e dal contesto storico che l’accoglie.
In sintesi, si è avverato quel che Hegel aveva predetto, cioè che la fruizione dell’opera, sempre più intrisa di filosofia, sarebbe stata affidata alla mente piuttosto che all’occhio.
Ad ogni modo, nell’ULTIMO DECENNIO del XX secolo, a tale mietitura “stilistica”, ha fatto seguito una ricerca in cui vengono interfacciate e correlate l’arte, la sua organizzazione e la realtà, quindi anche l’economia, la finanza, la sociologia.
Il movimento, che ne è espressione evidente, teorizzato in ITALIA, è stato quello denominato ART&CO.
In OLANDA, è stato siglato come BUSSINES ART.
Galleria, museo, critica, realtà non sono più l’approdo nolente o volente del fare artistico, bensì gli strumenti per produrre arte e gli artisti che vi partecipano sono “SOGGETTI ARTISTICI DITTE”. (Kostaby World, Bertozzi & Casoni, Premiata Ditta…).
Tutti gli elementi del sistema artistico quali media, indagini di mercato, scalate finanziarie, produzione di oggetti industriali, il museo,….sono utilizzati come “strumento artistico”.
In tale periodo si sviluppa anche la PITTURA MEDIALE o MEDIALISMO (Gian Marco Montesano, Sergio Cascavilla, Enrico De Paris, Mark Kostaby…).
Le immagini rappresentate nelle opere passano da un territorio o da un tempo all’altro.
Altri PITTORI MEDIALI internazionali (Luca Vitone, Emilio Fantin, Nello Teodori, Cesare Vieil…) operano attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici quali i sistemi di comunicazione e organizzazione fino al linguaggio informatico e alla rete internet.
Prima di andare oltre, bisogna aprire una piccolissima finestra sul passato, ed in particolare sull’INIZIO del XX secolo dove un gruppo di artisti, cosiddetti FUTURISTI, capeggiati dall’intellettuale Filippo Tommaso Marinetti, invocava l’avvento di un nuovo tipo di uomo, figlio del progresso della scienza e della tecnica, affermando ad esempio: «noi aspiriamo alla creazione di un tipo non umano», «L’uomo moltiplicato che noi sogniamo, non conoscerà la tragedia della vecchiaia!», e ancora «Con la conoscenza e l’amicizia della materia […] noi prepariamo la creazione dell’uomo meccanico dalle parti cambiabili».
Sul finire, invece, del XX secolo un altro gruppo di artisti, riuniti sotto l’etichetta di POST-HUMAN, hanno guardato nella stessa direzione.
Essi hanno sviluppato un discorso e un linguaggio avente ad oggetto un nuovo uomo alla luce delle nuove scoperte nel campo della genetica, delle biotecnologie e della chirurgia plastica, insieme alle novità dell’informatica, della cibernetica e della realtà virtuale, che stavano mettendo in effetti in quegli anni definitivamente in crisi le vecchie percezioni del corpo e della natura umana.
Un nuovo modello umano si andava affermando, un nuovo essere figlio della società tecnologica e consumista, alla continua ricerca di metodi per modificare il proprio corpo, frenare l’invecchiamento e ricalcare i modelli imposti dai media.
Un uomo nuovo per cui il confine tra naturale e artificiale era sempre più sottile e la natura biologica non costituiva più un limite alle proprie possibilità.
In sostanza, un umano oltre l’umano.
Gli artisti del POST-HUMAN hanno rappresentato chiaramente questa nuova condizione fisica e psichica dell’uomo, anche in modo talvolta beffardo ed esagerato.
Hanno evidenziato le sue paure, le nevrosi, il narcisismo, la perversione, l’omologazione, l’alienazione, l’adorazione del simulacro. (Mattew Barney, Yasumasa Morimura Cindy Scherman, Mike Kelley, Kiki Smith, Jeff Koons o Paul Charles Ray, Clegg & Guttmann, Sylvie Fleury…).
Alla base della filosofia artistica del post-human c’è uno spirito libero entusiastico e ottimista ma al contempo le opere prodotte stigmatizzano anche il rimpianto per la perdita di ciò che non c’è più.
In ITALIA e GERMANIA, ancora e sul finire del XX secolo, vi sono gli artisti del cosiddetto “NON LUOGO” ispirati da Marc Auge’ antropologo francese.
Sono Non Luoghi per quest’ultimo tutti quegli spazi senza identità netta: autostrada, svincolo, rotonda, aeroporto, centri commerciali, outlet, fast food, mezzi di trasporto utilizzati e percorsi da milioni di individui che si incrociano, ma non si incontrano, in modo del tutto frenetico e accelerato.
Per Auge’ “sono il prodotto della società che si è evoluta nella incomunicabilità nella contingenza del presente nella provvisorietà e nell’individualismo solitario”.
Alla moltitudine della piazza di un tempo risponde la solitudine forzata.
“Il Luogo era abitato il Non Luogo è transitato”.
Telepass o porte elettroniche identificano l’individuo in entrata e in uscita e per il resto del tempo si è soli e simili agli altri utenti che si trovano in questi paesaggi contemporanei.
Anche il turismo di massa assolve i medesimi riti.
Ebbene, come si diceva innanzi, soprattutto in Italia ma anche in Germania alcuni artisti si ispirano al Non Luogo.
La pittura e la fotografia si spogliano di finzioni decorative.
Il segno nella pittura è stemperato e la fotografia come i video diventano cronaca e tutti questi strumenti artistici sembrano rimandare l’uno all’altro e la presenza umana tende a “liquefarsi” in un tempo sospeso nell’istante del qui e ora.
Altri artisti guardano all’archeologia industriale, agli spazi abbandonati, fabbriche dismesse, edifici dimenticati dove si evidenzia il passaggio della presenza umana che ormai è un ricordo.
E, ancora, altri artisti indagano e leggono la vita delle persone attraverso la storia dell’abitare, delle forme architettoniche e sono strettamente connessi alla concezione contemporanea dell’architettura. (Luca Pancrazi, Andrea Chiesi, Botto&Bruno, Mimmo Iodice, Gabriele Basilico, Francesco Iodice, Armin Link…).
Sempre alla FINE del XX secolo grazie alle innovazioni tecnologiche, come efficientissime macchine fotografiche, camere digitali, telefonini ad alta definizione, si diffonde la poetica dell’istantanea che gli anglosassoni definiscono SNAPSHOT.
Alcuni artisti raccontano la vita vera fotografandola negli attimi intimi, privati, autentici senza alcun filtro o sovrastruttura.
Una fotografia immediata dinamica che appare sgrammaticata, sfocata, lontana dal purismo fotografico classico. (Nan Goldin, Wolfang Tilmans…)
In ITALIA non vi è un artista di rilievo che segue lo snapshot fotografico ma qualche pittore come Daniele Galliano che per il grado di realismo si avvicina alla foto e fa sì che la pittura diventi lo SNAPSHOT sulla contemporaneità con colori e tele che si sostituiscono ad obiettivi e pellicole.
SECONDA PARTE: DOPO IL POSTMODERNO O LA POSTSTORIA
L’attualità contemporanea del XXI secolo è caratterizzata in sostanza dalla ricerca di un nuovo Io.
La realtà è mobile provvisoria fluida, liquida (Bauman), imprevedibile non ci sono appigli ne’ certezze.
Gli artisti vivono una soggettività svincolata dal rigore teorico e formale di natura oggettiva.
La ricerca artistica non è più ricerca di un pensiero sull’arte in se e quindi di un nuovo linguaggio ad essa confacente ma è diretta verso un altrove indiscriminato e supportato dalla sola soggettività creativa.
Le proposte artistiche sono eterogenee non vi sono gruppi di artisti che ricercano linguaggi oggettivi ma solo soggettività legate dai luoghi o dalle generazioni alle quali appartengono.
C’è un clima, un mood si ripete soggettivo e quindi una proposta di diversa natura: impegno politico, impegno sociale, riflessioni sulla fruizione dell’opera, sul ruolo dei musei, sul linguaggio femminile o su problematiche intime, private, domestiche….
Sono queste le aspettative del mondo Contemporaneo?
Potrebbe essere giacché ogni artista risente del mondo fuori e dentro di sé e riporta nell’opera attraverso la sua creatività una propria visione e forse una proposta sia pure non definitiva in una società sempre più liquida.
Su questi presupposti sembrerebbe che oggi l’arte è aperta non solo ad ogni linguaggio soggettivo nel mondo artistico, ma fuori da se sembra aperta a tutti non solo come fruitori, bensì a tutti come improvvisati e temerari artisti che coltivano il semplice piacere privato e soggettivo.
Non si ricerca più il linguaggio oggettivo dell’arte ma la propria particolare individuale sopravvivenza e salvezza. (Cattelan, Vedova Mazzei, Moral…)
L’opera d’arte non è più frutto di una riflessione e di una conoscenza della visione del mondo e dell’arte universale, oggettiva tra il visibile e il non visibile a cui tendere, ma il risultato di una moltitudine di discorsi soggettivi legati alla società liquida, al reale, al quotidiano e senza alcuna pretesa o risposta.
Il dopo, l’oggi, è la cultura e l’arte dell’individualismo e del quotidiano in continuo divenire che va oltre il modello storico.
Siamo di fronte ad un fenomeno senza precedenti ossia al cospetto di un’arte fatta da artisti individualisti, per lo più non studiosi, non professionali, con tendenze al personalismo nei rapporti sociali; al di fuori, poi, dell’artista cittadino improvvisato e temerario.
Nell’oggi del dopo il postmoderno, in sintesi, non vi sono più correnti o gruppi artistici che aspirano ad un arte nuova, a un uomo o a un mondo nuovo, come con le avanguardie del primo novecento e se vogliamo, come si diceva sopra, anche con gli artisti del Postmoderno di fine XX secolo.
Nè tantomeno vi sono movimenti artistici che hanno come fine l’evoluzione del discorso sull’arte, superficie e rappresentazione, della forma, dell’equilibrio, della leggerezza, della sostanza e anche dell’ironia artistica, come con le neoavanguardie del secondo novecento e oltre, quantomeno per molti artisti italiani.
Ciò che avanza oggi sono libere soggettività espressione della cosiddetta ARTE MIA, preconizzata dalla critica d’arte Francesca Alinovi, che si ripete tentano l’avventura artistica come sopravvivenza quotidiana con stili per lo più legati alle performance senza alcun tipo di opera intesa come lavoro che possa essere apprezzato come vero e bello volto alla trasformazione e alla riflessione su tutti quei fenomeni legati all’esistenza e al mondo.
Tale fare artistico non tende evidentemente a soddisfare la ricerca artistica anche per la trasformazione dell’Io e del mondo, ossia della vita, attraverso armonia, equilibrio, eleganza, forma, sintesi, bellezza, bensì attraverso il quotidiano e il cliché tendono a portare l’uomo verso una trasformazione e una riflessione solo apparentemente attiva in realtà passiva, piatta e paralizzante.
Anche il sistema e il critico d’arte è in difficoltà perché ha bisogno di nuovi modi o parametri di giudizio che non riesce a cogliere del tutto.
Non possono essere i sondaggi di mercato o il concetto di utilità, preconizzati da qualcuno (interessati?), i nuovi parametri (o forse sì?).
Ma comunque sono evidentemente insufficienti e aridi per l’Arte con la maiuscola.
L’Arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana – svolta singolarmente o collettivamente – che porta a forme di creatività e di linguaggio o espressione estetica, poggiante su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza.
Pertanto l’arte è un linguaggio, ossia la capacità di trasmettere emozioni e messaggi “volti a spingere la vita verso una migliore posizione di confine”.
Tuttavia non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione.
Nel suo significato più sublime l’arte è l’espressione estetica dell’intelletto, dell’interiorità, dell’animo umano.
“Rispecchia” le opinioni, i sentimenti e i pensieri dell’Artista nell’ambito sociale, politico, morale, culturale, etico o religioso del suo periodo storico.
Alcuni filosofi e studiosi di semantica, invece, sostengono che esista un linguaggio oggettivo che, a prescindere dalle epoche e dagli stili, dovrebbe essere codificato per poter essere compreso da tutti.
Tuttavia gli sforzi per dimostrare questa affermazione sono stati finora infruttuosi.
Tale sforzo sembra aver occupato gran parte dell’Arte Moderna dalla fine dell’Ottocento e la Pittura Analitica degli anni settanta del Novecento, con quella ricerca che ha riguardato il fare arte e il discorso sull’arte (vedi La linea analitica dell’Arte Moderna di Filiberto Menna).
Potrebbe anche essere sufficiente l’asserto di Giacomo Leopardi secondo il quale l’opera d’arte è “il raggiungimento del piacere infinito dell’immaginazione dalla quale derivano la speranza, le illusioni”, ma oggi appare ai più come una definizione riduttiva.
Arthur C. Danto sosteneva che il concetto di “fine dell’arte” non implica che fare arte non ha più senso, ma che qualunque arte fosse sopraggiunta non avrebbe più avuto la rassicurante cornice narrativa del passato e che morta non era l’arte, ma un modo di intenderla.
TERZA PARTE: CONSIDERAZIONI ATTUALI SUL MONDO E SUL SISTEMA DELL’ARTE
Dopo numerosi studi, ricerche e approfondimenti, colti e preparati operatori del mondo dell’arte sono stati indotti negli ultimi anni a porsi nuove e più insidiose domande:
- l’oggi dell’arte è veramente difronte al postulato di Beuys “ogni uomo è un artista” e quindi l’arte è democratica?
E ancora:
- l’arte è stata eccessivamente contaminata dalla ideologia politica democratica e dai fraintendimenti dei concetti del fare artistico?
Tipico quello di Marcel Duchamp che inserendo l’orinatoio dentro un museo ci ha dimostrato che qualsiasi cosa è arte basta la certificazione del contesto (museo o galleria) e l’accordo tra i protagonisti del sistema?
Ma Duchamp era solo provocatorio oltre che geniale.
Lui rispondeva anche alla logica dei musei che sino ad allora e per secoli, oltre ad essere stati delle vere pinacoteche piene di capolavori (quadri e sculture) di maestri e scuole, erano stati anche il ricovero di ogni produzione o superficie dipinta che, anche se prive di qualità, proprio perché ospitate nelle collezioni pubbliche erano comunque riconosciute come opere d’arte.
Ma in tutti questi anni, si ripete, è stato frainteso, fortunatamente non da tutti, per la sola logica dell’utile, a discapito della qualità delle opere.
Ad ogni modo, non è facile rispondere a certe domande, nemmeno per i critici e gli storici più autorevoli, presenti e attenti nell’attualità del mondo e sistema dell’arte.
Proprio facendo riferimento alle fonti più autorevoli, però, possiamo provare a cercare una visione sferica e forse anche delle implicite risposte, anche se mai del tutto definitive, attraverso una campitura ove dispiegare ogni posizione e angolazione di visione sul tema che ci occupa.
Partiamo da alcuni dati obiettivi ricavati dagli stessi elaborati, anche se parzialmente condivisi, di storici e critici d’arte:
- il fine dell’arte non è la sua democratizzazione;
- né far credere ad ogni uomo di essere un artista;
- né che il popolo, attraverso i sondaggi di mercato o il successo mediatico e il concetto di utilità, possa decidere cosa sia arte oppure no;
- né che i musei siano da ritenersi l’unico riferimento possibile.
Infatti, cercare di tenere insieme il basso e l’alto del fare artistico:
- dapprima col tentativo di far conoscere l’arte “alta” direttamente al popolo (avanguardie e neoavanguardie di primo e secondo novecento), ha generato solo indifferenza, incomprensione, ostracismo;
- e poi industrializzando l’arte (postmoderno di fine XX secolo e inizio XXI), che ha prodotto il risultato di confondere e far credere al popolo che il basso del fare arte fosse l’alto;
ha determinato come conseguenza la quasi dissoluzione della creatività artistica alta, che comunque c’è e resiste, e l’affermarsi, sulla scena mediatica e culturale democratica, del basso artistico.
Tale evidente fallimento di democratizzazione della cultura e dell’arte ha ridotto la sensibilità artistica del popolo e insinuato il dubbio che la vera creazione artistica è oramai “asservita”, in modo patetico o cinico (evidentemente o celatamente), e comunque anche per la sopravvivenza, ad un sistema dell’arte oramai contaminato dal concetto di utilità e funzionale al sistema produttivo.
“Fortunatamente il vero artista pur influenzato e soggiogato da questo scenario pratica comunque una strategia per fuggirlo attraverso la sua libertà creativa, come ipotesi di linguaggio, e la sua immaginazione che il popolo, il quotidiano riesce appena ad intuire”.
Ad ogni modo, cercando di andare oltre i tanti quesiti e le fioche risposte, di recente è stato osservato molto sulla cosiddetta ARTE ASSERVITA.
“Ai nostri giorni, dopo aver assistito ad un riassestamento della geografia artistica con l’affermarsi di nuove realtà (vedi il Messico, l’Europa dell’Est, l’Area Baltica, l’Africa del Nord e del Sud, la Turchia, che hanno prodotto artisti giovanissimi, attraversati alcuni dal solo desiderio di affermarsi e altri animati da tensioni socio-politiche /Sisley Xhafa, Adian Paci…/, con opere di contestazione e denuncia che hanno un senso), le realtà del mondo artistico dominante e occidentale (Stati Uniti Gran Bretagna Germania Italia Francia), abituato a vivere nei privilegi e negli agi del capitalismo (non si tratta di una colpa ma di un dato di fatto), hanno prodotto per lo più artisti desiderosi di cavalcare le aspettative di un pubblico borghese e capitalista e quindi un’arte asservita che non faccia sentire il peso delle iniquità e delle diseguaglianze che giocoforza produce la forbice del capitale.
Si potrebbe obiettare che alcuni artisti occidentali hanno comunque coraggiosamente prodotto opere d’arte antiglobaliste con documentari, inchieste, docu-fiction sulle minoranze etniche, sull’immigrazione, la non integrazione, la derisione di capi di stato e potenti della terra; ma si è trattato di meteore poco credibili perché lontane dai più seri e gravi problemi esistenti come la fame nel mondo, l’influenza delle lobby economico-finanziarie, la difesa della democrazia dal terrorismo e dal fondamentalismo barbaro che distrugge i simboli della cultura e dell’arte.
Essa può avere solo una visione o punto di vista politico che non può essere il soggetto principale della ricerca.
Altrimenti si parla di sociologia, scienze umane, economia…”.
Ma ritorniamo all’Arte e agli artisti puri che, comunque, vivono inevitabilmente di tensioni e ansie umane e sociali.
Si è discettato, di recente, di ESTETICA RELAZIONALE.
“Negli ultimi anni abbiamo sentito teorizzare e produrre nel mondo artistico la cosiddetta ESTETICA RELAZIONALE, ossia viene superata l’idea dell’opera d’arte finita giacché essa si completa con l’intervento dello spettatore.
Si va alle mostre non per guardare le opere (che in realtà e per lo più non ci sono come oggetto) ma per partecipare e interagire con un progetto artistico che è evento, happening o forma di teatro.
Si interagisce con l’idea partorita dall’artista in gruppo riflettendo e discutendo di immigrazione, profughi, perseguitati politici, poesia, mercato dell’arte…
Si distribuiscono pasti, si filmano storie disgraziate che suscitano compassione, si recita, etc…”.
Si è dibattuto, ancora, sulla POST PRODUZIONE.
“Recentissima è la cosiddetta Post Produzione. Termine di derivazione cinematografica e musicale.
L’accostamento di immagini diverse, nello spazio, nelle forme, nel colore nel tempo, danno origine a un’opera contaminata e atemporale, con un significato imprevedibile e perciò del tutto nuovo e talvolta provocatorio.
Sia pure entro certi limiti e ognuno con tecniche e strumenti propri, vedasi in Italia Cattelan e Vezzoli, diversi l’uno dall’altro per l’essere il primo autodidatta, irridente, anticonformista, e il secondo un artista puro, originale, geniale, colto, borioso e soprattutto creatore di opere e lavori permeati di storia italiana del gusto estetico”.
“Anche la cosiddetta PUBLIC ART è coinvolta dalla Estetica Relazionale e dalla PostProduzione perché gli spazi pubblici sono stati invasi a torto o a ragione da alcune opere che alimentano sospetti di puro edonismo e ideologia di nicchia, che ai più non interessano e che appaiono talvolta banali e scontate, ma che hanno la presunzione di educare la gente comune all’arte”.
Non ultimo si è postulato su L’INFERNO DANTESCO.
“Negli ultimi recentissimi anni alle mostre d’arte tenutesi in Italia gli artisti, salvo rare eccezioni, hanno prodotto opere in linea con un vezzo che in generale attanaglia la nostra società soggiogata dai media e dove prevale il conformismo del dolore, del puntare il dito contro tutto ciò che va male: corruzione, malcostume, malavita, disfunzioni, immoralità.
Sembra non importare più delle reali eccellenze italiane nei diversi settori illuminati dalla creatività, dalla ricerca e dall’imprenditoria più sana.
Infatti, se l’artista non utilizza oggetti in disuso, scarti, neon, scritte, tecnologia, che si badi ben vengano come nuovi e più attuali linguaggi, sembra un artista pittore o scultore che utilizza un linguaggio anacronistico mentre di converso è il linguaggio artistico per definizione e per storia.
Purtroppo, non è cool and trendy e quindi il pittore o lo scultore che esprime la sua creatività ed emozione estetica con linguaggi artistici puri che potremmo definire, oggi, storici ed evoluti non è ben accetto e fatica a farsi largo perché un’ideologia dell’arte evidentemente ottusa lo tiene lontano e lo discrimina.
Per fortuna quando vi è qualità nell’illustrazione, nella sintesi, nell’immediatezza, nella forma, nello spazio, nel colore, è evidente che c’è sempre Arte e l’artista creativo che vive di emozione e gusto estetico”.
Grande interesse ha suscitato anche il cosiddetto ARTISTA ARTIGIANO.
“Nelle Accademie e nelle Scuole d’Arte oggi si è imposta la tendenza ad insegnare la ricerca pura scissa dall’oggetto finito.
Il fraintendimento è stato evidente sia di Duchamp che di Picasso che di Fontana, Lewitt, ed altri, i quali erano solo degli innovatori portatori di nuove visioni artistiche.
Invero, ed in estrema sintesi, Duchamp, come innanzi detto, teso a prendersi gioco dei musei contenitori anche del brutto artistico;
Picasso, che forza la bella pittura per andare oltre la bidimensionalità dell’opera pittorica e andando al di là della prospettiva rinascimentale;
Lewitt, pur ammettendo di poter delegare ad altri l’esecuzione della sua idea o del suo progetto artistico non si sottraeva dal parteciparvi o esserne il protagonista.
Ma in ogni caso nessuno, e meno che mai Fontana, rinnegava il fare pittorico o scultoreo, la manualità, la forma, lo spazio, il colore, il tempo nell’opera finita.
Purtroppo, i musei d’arte contemporanea danno per lo più spazio al vuoto: strutture metalliche, neon, carrozzerie, cemento, oggetti vari.
Per dirla con Richard Sennett, sociologo Contemporaneo, la mano e la testa, la tecnica e la scienza, l’arte e il mestiere non possono procedere separati perché a perderne è la mente ossia l’intelligenza e la capacità espressiva.
Il disegno fatto a mano nella pittura e nel design, la scultura, la ceramica, la conoscenza tecnica dei materiali fanno recuperare l’emozione estetica e soddisfano il bisogno di contemplazione e riflessione.
Sennett propone, adattandoli al nostro tempo, di recuperare il tempo lento del lavorare con le mani il tipico, ossia la materia del luogo, dell’oggi e della tradizione, di sollecitare l’attitudine al fare, di potenziare le capacità del singolo e di rincorrere l’ossessione per la qualità.
Altrimenti l’essere bravi e talentuosi viene vanificato e chiunque pur non avendone i titoli si siede al tavolo dell’arte”.
Anche il riferimento alla cosiddetta ARTE ARISTOCRATICA è stata oggetto di approfondimento.
“Insomma, esiste una evidente differenza tra la necessità democratica di un accesso alla fruizione delle opere e la “non democraticità della comunità che crea arte”.
L’accesso all’arte passa attraverso una formazione della sensibilità estetica che, come in tutti i campi del sapere e della cultura, non è affatto immediata.
Musei e Scuole devono potenziare questa formazione.
Per dirla con Federico Ferrari l’ARTE è sostanzialmente ARISTOCRATICA.
Per non alimentare fraintendimenti l’Arte non è la politica e non ha fini politici e con Arte Aristocratica dobbiamo intendere una comunità ristretta che funziona esclusivamente su una forma di silenzioso riconoscimento tra i migliori nella pratica creativa, nell’etica del fare Arte.
Nulla di ereditario, nulla che ha che vedere con una classe sociale o con studi, titoli o premi.
Una comunità, di vivi e di morti, dell’arte che è liquida, in divenire, senza gerarchie e regole ma che all’interno di una tradizione buca il tempo, vi si congiunge si prolunga e rinnova continuamente.
Un solo principio “L’atto creativo” del gesto artistico che è assolutamente anarchico e fa tutt’uno con la sua Aristocrazia.
L’artista in quest’ottica è un “aristocratico anarchico” che non riconosce alcun potere ma solo il dialogo inter pares nella comunità intertemporale dell’arte.
In questo dialogo sorge la sua responsabilità artistica di preservare la praxis dell’arte dal rischio che il gesto artistico anarchico, “nulla di principio”, conduca:
- verso il nichilismo, con la caduta di tutti i valori o metri di giudizio;
- verso il relativismo assoluto, dove ogni posizione ha egual valore perché non soggetto a regole o autorità.
Fuori da questo legame concettuale di “artista aristocratico anarchico” l’Arte svanisce e lascia il posto all’Arte Mia del puro divertissement soggetto ai gusti e alle opinioni, alle mode e agli interessi economici e finanziari.
Anche la critica deve avere un suo ruolo, nell’aristocrazia anarchica dell’Arte come creazione di opere, preservando la potenza dell’immagine che non è politica ma umana e oltre umana, appartiene all’oggi, al passato, al futuro e soprattutto è aperta e in divenire nella compiutezza dell’opera con una tensione verso la formazione di un’universalità del giudizio.
L’Arte, sembrano quindi convergere in molti, non è un sistema o comunità democratica dove ognuno ha uguali diritti di cittadinanza ma è fondata sulla conoscenza, sul rigore, sull’eccellenza e la qualità dei migliori”.
Anche il concetto di DECADENZA ha avuto il suo spazio di dibattito nell’Arte.
“Artisti e pensatori di ogni epoca hanno paventato il rischio della decadenza in cui arte, pensiero e cultura sono in pericolo.
Forse per l’anarchia senza regole o per l’aristocrazia senza potere o per la difficoltà di far fronte alla propria responsabilità davanti al continuo mutare del mondo, della società, della economia, della politica.
Ma l’aristocrazia anarchica dell’arte nel silenzio dell’immagine in ogni epoca ha riattivato la potenza creatrice dell’arte facendo sì che i posteri la accogliessero e la rinnovassero all’infinito”.
Si è discusso, infatti ed infine, del SILENZIO dell’IMMAGINE.
“L’opera immagine frutto della creatività dell’artista coincide con la matrice aristocratica della sua diversità e resta invisibile a chi non è di nascita legittima.
L’artista schiva la temporalità del presente e questo suo estraneamento dal flusso temporale presente genera una mancanza di aspettative nel presente stesso per fare spazio a quelle del futuro.
Inoltre, in questo ambiente soggettivo:
- l’artista accetta la conflittualità attraverso un’atteggiamento folle, dissociato (derisorio);
- oppure accetta le regole e i canoni per meglio vivere (indifferente).
Così facendo, comunque, non scardina l’ordine costituito che la società, il sistema produttivo tiene ben saldo.
L’artista resta così sospeso in un proprio territorio sempre in bilico tra speranza e disperazione, nostalgia e utopia, azione e pensiero”.
“Ai posteri l’ardua sentenza”, parafrasando il Manzoni, e lasciamo che sia la storia a dare la difficile valutazione.
Raffaele Pisacane
(fonti citate: Angela Vattese /Francesco Bonami/Marc Auge’/Luca Beatrice/Arthur C. Danto/Demetrio Paparoni/Achille Bonito Oliva/ Francesca Alinovi/Richard Sennett/Federico Ferrari).