Supplica Pompei, l’omelia di S. Em. Cardinale Mario Grech Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi

Preghiera e carità

Cari fratelli e sorelle,

è particolarmente significativo trovarci insieme in questo luogo così venerato nel quale la preghiera da sempre si associa alla carità e all’accoglienza. Fu grazie all’intuizione del Beato Bartolo Longo che il Santuario di Pompei non fu solamente il luogo della preghiera, ma anche il luogo dell’accoglienza, della carità e della fiducia. E da quello che ho potuto constatare personalmente in questi giorni, l’attuale pastore di questa Chiesa, Sua Eccellenza Mons. Tommaso Caputo, sull’esempio del Beato Bartolo Longo, è ben convinto che una fede senza dono, una fede senza gratuità è una fede incompleta, è una fede debole, una fede ammalata e perciò si è seriamente impegnato per conservare ed ampliare sia la preghiera e sia le opere di carità in questa città di Maria del Santo Rosario.

Si tratta in realtà di due elementi che sono di grande attualità per la vita della Chiesa in ogni tempo, ma in particolare oggi, mentre viviamo il percorso sinodale che Papa Francesco ha voluto per la Chiesa universale e di cui stiamo attraversando la prima fase in ogni Chiesa particolare, in ogni diocesi, quella dell’ascolto. Infatti il volto di una Chiesa sinodale ha in questi due «ingredienti», custoditi a Pompei, i suoi cardini: la preghiera e la carità. In particolare qui a Pompei la carità ha assunto un tratto particolare: quello della scommessa sull’uomo, in particolare sugli ultimi, gli orfani, i figli dei carcerati. Una Chiesa sinodale è una Chiesa che scommette sull’uomo, facendosi imitatrice dello stile di Dio, come ci ha ricordato il Santo Padre nel discorso di apertura del percorso sinodale: «torniamo sempre allo stile di Dio: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Dio sempre ha operato così. Se noi non arriveremo a questa Chiesa della vicinanza con atteggiamenti di compassione e tenerezza, non saremo la Chiesa del Signore» (Roma, 9 ottobre 2021). Per questo preghiera e carità non possono mai essere separate: la carità dei discepoli e delle discepole di Gesù non è una filantropia ripiegata su sé stessa, ma consiste nel vivere lo stesso amore di Dio che invochiamo e contempliamo nella preghiera.




Ma per entrare in questo mistero di carità che contempliamo sul volto di Dio lasciamoci guidare dalla Parola di Dio che abbiamo appena proclamato, dedicata alla figura di Gesù-Pastore. Nel brano del Vangelo si descrivono le azioni delle pecore e quelle di Gesù-Pastore. Ripercorrendo i verbi di questo testo di Giovanni possiamo scoprire la dinamica interna di una Chiesa sinodale che si gioca nel rapporto tra il Padre, Gesù e i suoi discepoli.

Che cosa fanno le pecore? Le pecore ascoltano la voce del Pastore. Gesù sta parlando in prima persona e dice: «le pecore ascolano la mia voce». La prima cosa che le pecore fanno è quella di ascoltare la voce del Pastore. Questo dice un rapporto personale che è frutto della preghiera e della frequentazione della Parola di Dio. Infatti noi ascoltiamo solo la voce che conosciamo, quella che ci è familiare, non quella dell’estraneo (Gv 10,5) che non conosciamo. Proprio all’inizio del discorso si dice che il pastore chiama le pecore ad una ad una per nome e che le pecore conoscono la sua voce (cf. Gv 10,3-4). Per ascoltare la voce del Pastore occorre familiarità con lui e questa familiarità, che ci permette di riconoscere la sua voce tra le tante voci, nell’esperienza credente è la preghiera. Sempre nel discorso di apertura del percorso sinodale il Santo Padre ha affermato: «il sinodo ci offre l’opportunità di diventare Chiesa dell’ascolto: di prenderci una pausa dai nostri ritmi, di arrestare le nostre ansie pastorali per fermarci ad ascoltare. Ascoltare lo Spirito nell’adorazione e nella preghiera».

In secondo luogo le pecore «seguono» il pastore. È il secondo verbo che ha per soggetto le pecore. Non basta ascoltare occorre seguire. Qui potremmo dire troviamo il secondo elemento di una Chiesa dal volto sinodale: la carità. È l’ascolto della voce del Pastore che si traduce in vita vissuta. Non c’è ascolto autentico che non si traduca in sequela del Signore, facendo «sinodo» dietro a lui, cammino insieme. È significativo che si parli di un gregge. Infatti in un gregge è fondamentale camminare insieme, andare insieme dietro il pastore. Solo così le pecore possono avere la vita. Quando una pecora si smarrisce e cammina da sola, va in pericolo.

Ma un gregge cammina insieme non perché i suoi membri si sono scelti, ma per la relazione che tutti hanno con l’unico pastore. Come il pastore è ciò che fa l’unità del gregge, così è Gesù che fa l’unità della Chiesa, della comunità dei suoi discepoli e discepole. Allora il fondamento dell’ascolto e della sequela non sta nelle pecore, ma nel pastore. Dobbiamo guardare a lui se vogliamo trovare il fondamento del nostro essere Chiesa.

Che cosa fa allora il pastore? Egli conosce le pecore e dona loro la vita eterna. C’è un legame tra l’ascolto e la sequela delle pecore e il conoscere e il dare la vita del Pastore. Nella Bibbia quando parliamo di conoscenza facciamo riferimento ad una realtà relazionale: si conosce, quando si è sperimentata una persona e si è rimasti toccati dall’incontro con lei. Gesù conosce le pecore perché le ha amate al punto da «deporre» la sua vita (cf. Gv 10,15) e così «consegnare» loro la vita eterna. In un altro passaggio del discorso si dice che il pastore conosce le pecore e le pecore lo conoscono (Gv 10,14): è una relazione reciproca fondata sull’amore di Gesù per le sue pecore, i suoi discepoli, fino al dono della vita. Per Giovanni Gesù ci ha amato dell’«amore più grande». Infatti «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questo è uno dei frutti della Pasqua di Gesù: la conoscenza reciproca fondata sull’amore.




Infine l’ultimo passaggio. Il brano del Vangelo ci dice che la relazione tra Gesù-Pastore e le pecore-discepoli non è chiusa in sé stessa, ma si allarga a quella trinitaria con il Padre. Il testo sembra affermare che ciò che conta è che sia stato il Padre ad affidare le pecore a Gesù: su questo fondamento esse stanno sicure nelle sue mani. Come in tutto il Vangelo di Giovanni, anche qui si afferma che il fondamento della relazione tra Gesù e i suoi discepoli è la relazione esistente tra Gesù e il Padre. Avviene come un’identificazione della mano del Figlio e della mano del Padre. I discepoli sono sicuri nella mano del Figlio, perché in essa si rende presente la mano del Padre. Anche in questo tratto del brano del Vangelo di questa domenica andiamo al cuore della teologia della sinodalità. È infatti nella comunione trinitaria che la comunità dei discepoli e delle discepole del Signore Gesù scopre il proprio modello e la fonte della sua esistenza. Il documento della Commissione Teologica Internazionale afferma: «la Chiesa partecipa, in Cristo Gesù e mediante lo Spirito Santo, alla vita di comunione della SS.ma Trinità destinata ad abbracciare l’intera umanità» (n. 43).

Cari fratelli e sorelle, qui a Pompei sono custodite quelle realtà che troviamo nel brano del Vangelo di questa domenica e che sono gli ingredienti fondamentali del percorso sinodale che stiamo vivendo: la preghiera e la carità. Ma c’è un’altra «custode» di questi doni e che è immagine della Chiesa: Maria, qui venerata come Vergine del Rosario. Maria è «donna sinodale» perché Vergine dell’ascolto e della tenerezza. In lei contempliamo la Chiesa Madre e Sposa chiamata a dare una moltitudine di figli al Figlio Sposo morto e risorto. Rinnovare la supplica alla Madonna di Pompei in questo anno non può non farci pensare a tante realtà. La supplica è nata in riferimento alla vita della Chiesa e del mondo: è portare davanti a Gesù, attraverso Maria, «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (GS 1).

Come posso non ricordarmi dei tanti pellegrini, anche quelli che pensano che siano “fuori” del recinto della Chiesa ma fuori non sono, che oggi hanno i loro occhi bagnati fissi sull’icona della Regina del Santo Rosario! Allora oggi, nella supplica a Maria, Vergine del Rosario, non possiamo non portare «le gioie e le speranze» del percorso sinodale che stiamo vivendo e che il Santo Padre ci invita costantemente a percorrere con slancio e fiducia, lasciandoci guidare da Maria «donna sinodale». Ma poi non possiamo non portare davanti al «cuore di madre» della Vergine Maria «le tristezze e le angosce» della guerra, della violenza e dell’odio che insanguinano oggi l’Europa e tante altre parti del Mondo. Davanti alla Vergine Maria portiamo quindi il popolo dell’Ucraina e tutti coloro che oggi soffrono, scommettendo sull’umanità, come ci ricorda l’intuizione originaria di Pompei. Anche Dio ha scommesso sull’umanità e continua a farlo. Per intercessione di Maria, chiediamo anche noi di essere imitatori di Dio, capaci di scommettere su un’umanità capace di costruire e difendere la pace. Qualcosa ci lega tutti molto profondamente, Siamo fratelli tutti, accolti da Maria. Tutti sotto il suo manto materno!

Cardinale Mario Grech
Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi



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