Il Gazzettino vesuviano | IGV

‘A Staggiona

Da “‘e mellune chine ‘e fuoco” si intuisce con prontezza che il mellone (con due “elle” e corrispondente all’italiano cocomero perché il “melone” invece è un’altra cosa) è talmente colorato da apparire simile al fuoco – a “… e magnatella na fella, ca nu Vesuvio è chisto” ovvero mangiala una fetta che (simile) a un Vesuvio è questo, passando per la più semplice “sparagna, cu nu sordo magne, vive e te lave ‘a faccia”, risparmia, con un soldo mangi, bevi e ti lavi la faccia: erano queste le voci proposte dai mellonari, i venditori di cocomeri, di mezzo secolo fa, nei cortili e tra i vicoli delle cittadine vesuviane.

Il distinguo tra i differenti modi di indicare uno tra i frutti estivi più saporiti è obbligatorio e necessario. Perché con il termine mellone, in generale si intende appunto il cocomero; se si mette l’aggettivo “rosso”, poi non si fa altro che rafforzare il concetto.

Ma non esiste solo la parola mellone per classificare quel prodotto. Ci sono difatti anche i vocaboli mellunessa e cucozza.

A ferragosto si mangiava pane e mellone

La mellunessa è quella di forma tondeggiante e di colore scuro, più settembrina, ancora rossa all’interno; mentre la cucozza è quella classica, lunga, che si taglia nel giorno dell’Assunta, il 15 agosto, per la “devozione” secolare: cenare con pane e mellone.

Il melone, invece è cosa diversa, anche se appartiene alla stessa famiglia. Difatti, la scorza può variare in colore dal giallo al verde scuro. Allora si parla d”o mellone ‘e pane, d”o mellone zuccariello, d”o rignuso, d”o vernaiuolo o p’appennere, destinato a essere consumato durante le feste di Natale, ultimo ricordo i una passata estate. Quando per il troppo peso o disattenzione il mellone cascava, si diceva che s’era scucuzzato. Per similitudine, quando ci spaccava la testa si arguiva che s’era “scucuzzato” un altro e ben più importante mellone.

Veniva tenuto in capaci tinozze di legno assieme a pezzi di ghiaccio perché fosse ben fresco al momento dell’acquisto

In genere il mellone si trovava nei puosti, fruttivendolo, messo a bagno in capaci tinozze in cui galleggiavano pezzi di ghiaccio, perché si mantenesse ben fresco. Ma poteva anche essere venduto dagli ambulanti, che giravano con i caratteristici carretti, o in quei puosti improvvisati sia lungo le nazionali sia nelle piazze di paese appunto per venderli.

A Boscoreale, i puosti per eccellenza stavano tra via Croce e via Garibaldi. Il primo era condotto da Ciccio d”e pullanchelle, vendeva anche spighe bollite: ‘e ppullanchelle, appunto; l’altro, da Sciampagna, dove si poteva trovare anche ghiaccio a pezzi e altra frutta e verdura. Postazioni mobili erano quelle in piazza Vargas, tenuta da Nicola ‘o scapricciatiello, e a Passanti nel puosto di Tore Carnera.

A Boscotrecase un puosto rinomato era quello situato ‘ncopp”a scesa Amaro. Uno tra i maggiori grossisti di mellone, a Boscoreale era Peppe ‘o cervunaro. Teneva deposito in via Garibaldi, in una cantina sotterranea situata nel cortile Durazzano, dove veniva ospitato anche il cavallo, e li metteva in vendita accatastati appunto davanti all’abitazione, distante pochi metri, affacciata su via Garibaldi. In genere, della scelta del mellone si occupava il figlio Gigino, mentre al padre toccava il peso e la riscossione del prezzo. Cinque, dieci lire al chilo, il costo massimo tra il ’56 e il ’57.

Le perzeche e le percoche

Ma luglio e agosto erano anche i mesi in cui abbondavano altri frutti: dalle perzeche, alle percoche, dall’uva ai fichi alle cresommole, le albicocche. Queste ultime, in genere erano pronte per San Giovanni, il 24 giugno. Decine le specie che gli alberi vesuviani producevano: zeppe ‘e sisco, pellecchielle, acqua d”a Maronna, cafone, monaco, munacone, tra le altre. Chi più, chi meno, saporita e succulenta. Tra le perzeche, le pesche, si distinguevano per dolcezza quelle gialle: saporite e profumate.

Un frutto a parte le percoche, dure e dolcissime, potevano essere mangiate semplicemente senza buccia oppure dopo averle fatte sostare per un paio d’ore in una caraffa, l’arciula, di vino ben ghiacciata. Int”o vino percoche: dentro il vino, percoche, era la voce che l’ambulante dava per magnificare la dolcezza del frutto.

L’uva Sant’Anna era buona dal 26 luglio

Un mondo a parte era quello dell’uva. Nel 1860 da Vincenzo Semmola, avvocato e appassionato di Botanica, sulle pendici del Vesuvio vennero catalogati ben 160 tipi di uva e relativi vitigni. Si cominciava con la Lugliese, si continuava con l’aglianeca, con la zizza ‘e vacca, con la purchiacchella, con la pisciammocca, la scassacarretta, ‘nzoleca, curneciello, e la Sant’Anna, tra i tanti.

Un tipo di uva dal sapore caratteristico, ll’uva Sant’Anna che maturava proprio in occasione della festa dedicata alla Madre della Madonna, il 26 di luglio. Conosciuta anche come ll’uva d”a Maronna, fu, se pure ve ne fosse stata necessita, nobilitata, per così dire, da Giovanni Capurro, poeta napoletano, in una stupenda lirica appunto titolata ll’uva d”a Maronna:

”Pe’ lucrà na cusarella
i’ nu puosto aggio affittato
tutte ‘e sporte aggio aparato
cu ‘e bannère ‘ a ccà e ‘a llà
Sciure frische, ‘e pezza, ‘e carta
nce  aggio spiso na muneta
e  na scicca vesta ‘e seta
tengo nganna ‘e t’accattà
mo’ nce vo’, sì a mala sciorta
Pe’ dispietto me zuffonna
sulo ll’uva d”a Madonna
nu miracolo po’ ffà. Io na pigna te ne manno
ca te ‘mbarzama a vucchella
tu cu grazia mangiatella
st’uva doce, e penza a me”.

Austo, tre cose jiuste: ll’uva, ‘e fiche e nu poco ‘e friddo

Assieme all’uva, in agosto, inoltrato, spuntavano i primi fichi. Annunciavano, spesso, le prime piogge: austo, tre cose jiuste: ll’uva, ‘e fiche e nu poco ‘e friddo, Agosto, tre cose giuste: l’uva, i fichi e un poco di freddo. Saporiti, dolci, da mangiare senza nemmeno sbucciarli: Santu Pieto, Vuttaro, Pallaro, bianche, rosse, e scure, come il carbone. ‘A fica, il fico, codificò un ignoto, nel Seicento, p’essere bona ha da tené: cuollo ‘e ‘mpiso, vesta stracciata e lacreme ‘e puttana. Ovvero il fico per essere saporito deve avere collo d’impiccato (lungo e stirato) veste strappata (buccia spaccata) e sulla bocca lacrime di puttana che si crede siano dolci, quando capita, più del miele.

Carlo Avvisati

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