E’ accusato di avere importato cocaina per 800 milioni di euro: nuovamente arrestato Raffaele Imperiale, 48 anni originario di Castellammare di Stabia di “professione” narcotrafficante internazionale. Imperiale è tra i protagonisti della maxi operazione contro la ‘ndrangheta calabrese scattata ieri mattina e condotta da guardia di finanza e Direzione Distrettuale Antimafia (Dda). Insieme al 48enne sono indagate altre 35 persone.
Estradato da Dubai nel marzo scorso, “Rafael Empire” (così chiamato in alcuni atti d’inchiesta) si trova ora in carcere in Italia dove deve scontare 8 anni e 4 mesi per traffico di droga. Raffaele Imperiale, finito in numerose inchieste per traffico di cocaina, è noto soprattutto poiché nell’abitazione di alcuni suoi parenti, nel rione “Annunziatella” di Castellammare, vennero rinvenuti due Van Gogh.
Cocaina dal Sudamerica per 800 milioni di euro: nuovamente arrestato il boss dei Van Gogh Raffaele Imperiale
L’operazione di ieri è stata incentrata sul traffico internazionale di sostanze stupefacenti. La “logistica del narcotraffico” gestita dalla ‘ndrangheta aveva la sua base nel porto di Gioia Tauro, in Calabria. Tra le città raggiunte dai provvedimenti emessi dall’Antimafia ed eseguiti dalla guardia di finanza anche Napoli. In azione in tutto il Paese, da nord a sud, oltre trecento militari.
L’operazione, come già accennato, coinvolge le province di Reggio Calabria, Vibo Valentia, Bari, Napoli, Roma, Terni, Vicenza, Milano e Novara. I 36 indagati (34 in carcere e 2 ai domiciliari) risultano coinvolti in un traffico internazionale di sostanze stupefacenti aggravato dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta.
Le indagini di Antimafia, guardia di finanza, Dea ed Europol
Essenziale per il buon esito delle attività si è dimostrato il coinvolgimento delle più importanti Istituzioni ed Agenzie europee ed internazionali dedite al contrasto dei crimini transnazionali. Le indagini, infatti, per il tramite del II Reparto del Comando Generale della guardia di finanza sono state realizzate con la collaborazione di Europol e della Dcsa, nonché della Drug Enforcement Administration (Dea) americana. Nel dettaglio l’operazione ha consentito di destrutturare una articolata organizzazione criminale, attiva all’interno dello scalo portuale gioiese.
L’organizzazione articolata su tre distinti livelli
Obiettivo dell’organizzazione era il recupero di ingenti partite di cocaina, giunte a bordo di navi cargo provenienti dal Sudamerica ed il successivo stoccaggio presso depositi ritenuti “sicuri”. L’organizzazione, che avrebbe assicurato la logistica del narcotraffico come se fosse una vera e propria società di servizi, era articolata su tre distinti livelli di soggetti coinvolti: esponenti delle principali famiglie di ‘ndrangheta, in grado di garantire l’importazione delle partite di cocaina in arrivo dal Sudamerica; coordinatori delle squadre di operai portuali infedeli che avrebbero retribuito la squadra con una parte della “commissione”, variabile tra il 7 e il 20% del valore del carico, ricevuta dai committenti (le dazioni ricostruite ammonterebbero ad oltre 7 milioni di euro); operatori portuali materialmente incaricati di estrarre la cocaina dal container “contaminato” e procedere all’esfiltrazione dello stesso verso luoghi sicuri.
Le comunicazioni criptate per l’invio e la ricezione della cocaina: al vaglio le conversazioni di Raffaele Imperiale
L’attività ha permesso di rilevare la dettagliata organizzazione dei narcotrafficanti, soliti comunicare con telefoni cellulari criptati. Dalla minuziosa ricostruzione sarebbe emerso che, dopo l’indicazione ai referenti locali da parte dei fornitori sudamericani del nominativo della nave in arrivo e del contenitore con la sostanza stupefacente, l’importazione passava sotto la supervisione dei dipendenti portuali coinvolti, i quali si attivavano affinché il container “contaminato” venisse sbarcato al momento opportuno e posizionato in un luogo convenuto.
Avuta la disponibilità dello stesso, la squadra di portuali infedeli provvedeva a collocarlo in un’area “sicura”, appositamente individuata, per consentirne l’apertura e, quindi, lo spostamento del narcotico in un secondo container (abitualmente indicato dagli indagati come “uscita”) ritirato, nelle ore successive, da un vettore compiacente e trasportato nel luogo indicato dai responsabili dell’organizzazione.
Il “sistema del ponte”
È proprio la ricostruzione della complessa fase dello spostamento dei container all’interno del porto che avrebbe consentito di disvelare la modalità utilizzata dai portuali per il trasbordo dello stupefacente, da loro stessi denominata sistema del “ponte”. Nello specifico, individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il contenitore “contaminato” veniva posizionato difronte al contenitore “uscita”, lasciando trai due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita.
Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante. Una volta allestita l’area, al fine di non destare sospetti, i portuali infedeli venivano trasportati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella medesima fila ove era stata allestita la struttura. Infine, per evitare che soggetti estranei ai fatti intralciassero le operazioni illecite, due straddle carrier (veicoli speciali adoperati per la movimentazione dei container), condotti dagli indagati, stazionavano ai lati della fila di contenitori ove era stato costruito il ponte, per impedirne l’accesso e monitorare, dall’alto, l’eventuale arrivo delle forze dell’ordine.
Nell’inchiesta anche un appartenente all’Ufficio Antifrode dell’Agenzia delle Dogane
Terminate le operazioni, dunque, ai container venivano applicati sigilli contraffatti. A quello proveniente dal Sud America veniva apposto un sigillo “clone”, spedito dalla stessa organizzazione fornitrice ed occultato all’interno di uno dei colli contenenti la sostanza stupefacente, mentre al container “uscita” veniva apposto un sigillo fasullo, predisposto dalla compagine criminale incaricata del recupero del narcotico.
È, inoltre, emerso il coinvolgimento di un appartenente all’Ufficio Antifrode dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Gioia Tauro (destinatario di misura cautelare in carcere), il quale sfruttando le proprie mansioni nell’ambito dei previsti controlli ispettivi, avrebbe alterato l’esito della scansione radiogena operata su un container contenente 300 kg di cocaina, oscurando le anomalie riscontrate e attestando la coerenza della scansione con il carico dichiarato. Per tale comportamento il doganiere avrebbe ottenuto una somma di denaro par al 3% del valore del carico illecito.
La distribuzione del carico
Le indagini hanno inoltre consentito di individuare i soggetti responsabili della progettazione ed esecuzione di un rilevante traffico dal Sudamerica alla Calabria, caratterizzato da periodiche e imponenti, ognuna di circa 2 tonnellate, importazioni di stupefacente.
In una occasione, al fine di eludere i controlli gli indagati calabresi avrebbero ideato e richiesto ai fornitori colombiani specifiche modalità di occultamento del narcotico, inviando veri e propri schemi in cui veniva suggerita, mediante la raffigurazione del container, la ponderata distribuzione del carico, con la previsione dell’occultamento di 4 panetti di cocaina all’interno di ogni singola scatola del “carico di copertura” (banane), ad esclusione delle prime e delle ultime file di scatole, da non “contaminare” poiché più facilmente ispezionabili. Il carico, consistente in circa 1.920 panetti di cocaina, che avrebbe dovuto eludere i controlli effettuati con l’utilizzo dello scanner, è stato, tuttavia, intercettato e posto sotto sequestro dai finanzieri.
Francesco Ferrigno