Mah. Non vorremmo mai fare le pulci a una narrazione. Anche perché in genere il racconto di un fatto, quando viene confezionato da specialisti della comunicazione è bello. Bello come quel pacco regalo per la tua ragazza che la commessa ti mette nella carta dorata e te lo infiocchetta, sotto Natale. Bello come il trenino che da bambino ti aspettavi dalla Befana il sei gennaio. Bello come quando ritrovi un calzino che da mesi era scomparso, ingoiato dalla base della cassettiera e poi pensi e dici , tra te e te: ma come ci è arrivato là sotto.
Scavi di Stabiae, quella narrazione accattivante: scoperta o ri-scoperta di molti anni fa?
Mah. E non te lo sai spiegare. È bella la narrazione e quanto più bella è più accattivante si presenta. Metti, per esempio, è un esempio, che da uno scavo a Stabia, parecchi anni fa, due lustri (oh, per chi mo avesse qualche difficoltà avvertiamo subito che il lustro equivale a cinque anni, eh) esce un reperto e che lo stesso, non essendo completata l’indagine, per non falsare il tutto venga rimesso sotto terra.
Se uno non si ricorda…si può!
E metti pure che dopo un certo tempo lo scavo viene ripreso e che il reperto sbuca fuori nel suo splendore… che vuol dire? Si può dire che si tratta di una cosa fresca scavée, come il Kitty il cagnolino “fresco affoghéè” “salvato” dalla fontana da don Vittorio De Sica in “Pane amore e… “?. Certo. Se uno non si ricorda o non sa che il ritrovamento c’era già stato, si può, si può. Lo dice anche il vangelo, alleluja: abbiamo una perduta … ritrovata.