Il Gazzettino vesuviano | IGV

Il Natale della devozione e il pranzo della festa, tra baccalà e chiòchiare

natale devozione

Il pranzo della festa, tra baccalà e chiòchiare. 

Le linguine con i lupini e le tunninole.

Struffoli per dessert e lammiccato del Vesuvio al posto dello champagne.

Le anguille di sciummo e gli ammarielli di Sarno. 

La novena dell’Immacolata e quella di Natale. Gli zampognari mezzi ubriachi per le troppe bevute non azzeccavano una nota.

Gli spari degli scugnizzi: dai tracchi alle cipolle. 

Rafele ‘o barbanera che vendeva calendari e lunari perché i contadini potessero calcolare le fasi della luna e provvedere a semine e raccolto.

La menesta mmaretata con tracchiulelle, ped’’e puorco e gallina.

Natale di Boscoreale, non troppi anni fa, veniva annunciato dal suono stridulo della zampogna e dall’altro squillante della ciaramella, dagli spari di tricchitracche e dalla presenza tra vicoli e cortili di Rafele ‘o Barbanera. Senza dimenticare, però, Pascale ‘o sarnese, che vendeva anguille  e ‘ammarielli ‘e sciummo. 

Rafele, Raffaele, chissà se poi quello era il suo vero nome, vestiva decentemente, sulla spalla destra, a bilancione, portava una doppia sacca  e aveva il viso incorniciato da una barba bianca vecchia di almeno tre quattro giorni. L’appellativo di “Barbanera” gi derivava dal commercio ambulante che faceva: vendeva calendari e lunarii, e tra questi il più famoso era proprio il “Barbanera”. 

Una sorta di Bibbia del contadino, il libricino, all’interno del quale chi si occupava di semina, potatura e quant’altro riguardava la campagna, trovava indicazioni e fasi lunari (mancanza’e luna, luna calante – ma anche ‘a suttile per il fatto che la falce lunare si assottigliava , criscenza ‘e luna, luna crescente) giuste per i  tempi da dedicare alle coltivazioni. In genere, Rafele veniva pagato con moneta sonante; quando però non era possibile, bastava una bottiglia di vino, qualche chilo di noci e nucelle e lui si riteneva ben remunerato. 

Quella degli spari di botte e tricchetracche era un’altra storia. Tutto cominciava con il passaparola: ‘sciampagna tene ‘e botte, guagliù. Ovvero, Sciampagna (che era lo strangianomme, il soprannome della proprietaria del puosto, negozio di fruttivendolo con postazione esterna sulla strada) tiene i botti, ragazzi. E in quel generico “botti” erano compresi: tricchetracche, botte a mmuro, trunielli, botte cu ‘o sisco, e ccepolle, grossi petardi a miccia lunga.

Insomma ce n’era per tutti i gusti e di tutte le dimensioni. Spesso, il tracco veniva smontato, separando la botta singola che veniva accesa e lanciata. Quando il lancio tardava o la miccia bruciava velocemente, saltavano dita e mani. Non è raro, ancora oggi, incrociare un adulto con quel tipo di menomazione. Falso coraggio e stupidità precoce hanno rovinato parecchie esistenze. Ma tant’era. E tant’è, tutt’ora. Dunque, lo sparatorio iniziava ai principi di dicembre con la trasuta della ‘Mmaculata, l’otto dicembre; giungeva all’apice alla mezza notte di capuranno, capodanno; ridiscendeva ai “normali” valori il 17 di gennaio, a Sant’Antuono, quando poi terminava del tutto, dopo che il fucarazzo devozionale si era completamente  consumato. 

‘O sarnese, portava una spasella, sporta bassa di lato, in equilibrio sulla testa; al braccio destro aveva un secchio di latta; a quello sinistro un panaro, paniere, di vimini e sulla spalla destra un valanzone, bilancia con romano, di ottone. 

Nella spasella teneva, ben coperte con un telo fermato da una corda che  girava attorno al contenitore, le saporitissime anguille (per pezzatura si distinguevano in meze anguille, anguille, mieze capitune e capitune: va detto ancora che l’anguilla è il maschio e il capitone è la femmina)  del Sarno. 

Nel secchio di latta, invece, c’erano i gustosi jammarielli ‘e sciummo, gamberetti di fiume; il paniere conteneva i fogli di carta per fare il classico cuoppo, cono, e il valanzone  serviva per pesare il tutto. 

Senza anguilla, insomma, nun traseva Natale, non si entrava in periodo natalizio. Venti giorni punteggiati dal suono della zampogna e della ciaramella che si fermavano a ogni edicola con raffigurata la Madonna e intonavano la musica, ‘a nuvena d’’a Mmaculata, la novena dell’Immacolata, dal sette al sedici dicembre, e ‘a nuvena ‘e Natale, la novena di Natale, dal diciassette al venticinque. La coppia di zampoganri veniva chiamata a suonare anche davanti ai presepi casalinghi. Quasi sempre, alla fine della canzone (quanno nascette Ninno, di Sant’Alfonso de’ Liguori), ai due si offriva na presulella d’annese (un cicchetto di anisetta) o nu vermuttino, un bicchierino di vermouth. 

Non era raro, alla fine della mattinata, vedere i due barcollare sulle gambe e non incarrare una sola nota davanti all’ultimo presepe della mattinata. L’ultimo giorno, a Natale, venivano pagati. Trecentocinquanta lire, tra il 1955 e il 1960, costava la serie di suonate. Il saldo avveniva appena dopo l’ultima sunata, mentre le maeste, erano indaffarate a friggere le anguille e ‘e jammarielle di Pascale, a preparare la ‘nzalata ‘e rinforzo, a mettere sul fuoco (con aglio, olio e pupanio) le zuppiere di lupini e tunninule appena sciacquati, perché si aprissero e facessero un saporitissimo sugo da usare per condire le linguine. O a ffriere quacche piezzo ‘e baccalà ‘nfarenato, qualche pezzo di bacclà infarinato, ‘o cuntorno ‘e chiòchiare, il contorno di peperoni tondi sott’aceto, quatte anielle ‘e seccia e ccalamari, quattro anelli di seppie e calamari. 

Non era Natale, se la tavola non conteneva le classiche pietanze della devozione. Innaffiate dal bianco del Vesuvio: ‘o ccrapettone; ‘a falanghina, la falanghina. O ‘o llammiccato, l’abboccato (vin dolce) quando alla fine del pranzo, mezzi sciaccati dal troppo mangiare, arrivavano le guantiere con i roccocò, i mustacciuoli, i susamielli e gli struffoli coperti da riavulilli e miele. Il tutto aspettando Santo Stefano, quando per restare “leggeri” si faceva la menesta, la minestra. Mica “zitella”!?. La maritavano – ‘a menesta mmaretata – con tracchiulelle ‘e puorco,  na meza  recchia e nu poco ‘e pede (sempre dello stesso); na meza gallina; quacche piezzo ‘e cuperta ‘e custata (carne per bollito). Non dimenticando l’uosso masto, il femore, del manzo o vacca che fosse. E poi, c’era la verdura. Le specie?  Quante più ve n’erano meglio veniva il matrimonio. Per restare leggeri, dopo Natale. Mica per altro.

Carlo Avvisati

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