Un “41 bis” della stampa per i mafiosi. Ovvero? Cercherò di essere breve. Tutti noi siamo stati avvolti dalla narrativa sull’arresto di Matteo Messina Denaro e tutti siamo stati travolti dal dubbio e dal complotto. Tipico dei nostri anni social. Trent’anni di latitanza in cui il boss ha fatto i suoi porci comodi mentre veniva condannato in contumacia per questa strage e quell’altra. Tutto per poi quasi “consegnarsi” alle autorità vecchio, malato e con ogni probabilità con qualcuno già pronto a succedergli.
Le tesi dell’arresa di comodo fa male; quella della protezione della popolazione a lui vicina che faceva finta di non vederlo fa malissimo; quella della protezione “politica” è nauseante; quella della trattativa politica culminata in un arresto senza manette è tremenda. Sin da subito sono tesi che ho rifiutato. Soprattutto per il profondo rispetto che nutro per quelle forze dell’ordine e quei pm che si fanno sanguinare gli occhi, le mani e i piedi per incastrare gente disposta a sciogliere nell’acido bambini e a gettare i nemici davanti ai maiali affamati per la propria sete di potere.
Faccio una breve parentesi sulla questione della “protezione popolare”. Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di confrontarmi sul tema nel corso di un dibattito pubblico con Pino Maniaci, il direttore di Telejato inserito da Reporter Senza Frontiere (Rsf) nella lista dei cento eroi mondiali dell’informazione. Maniaci, su quella protezione di cui ha goduto Denaro, ha parlato di “paura”. La popolazione siciliana, insomma, molto semplicemente e banalmente, ed in maniera diffusa, avrebbe avuto timore di riconoscere il capomafia che si aggirava per quei paesi.
Nelle ultime settimane abbiamo, sempre mediaticamente, quasi “preteso” il coraggio dei siciliani mentre intimamente, guardandoci allo specchio, comprendevamo meglio i silenzi che scendevano quando il latitante entrava in un bar per la colazione. Ci ho pensato a lungo, e credo sia proprio questo il senso dell’affermazione di Maniaci: per trent’anni abbiamo avuto bisogno di eroi per riconoscere in strada un uomo che scioglie i bambini nell’acido e che fa saltare in aria i giudici. Al di là dei complotti, mi piace o mi spiace credere, non ho ancora deciso, Denaro non ha mai incrociato per quelle viuzze l’eroe che non meritavamo, ma di cui avevamo bisogno. E metro dopo metro, giorno dopo giorno, caffè dopo caffè, per lui è stato tutto più semplice.
Ma andiamo ancora oltre. Sembrerà strano, ma è stato Marco Presta a “Il Ruggito del Coniglio” su Rai Radio 2, a darmi la spinta decisiva per scrivere queste righe. Presta, che nel corso della favolosa trasmissione che conduce di mattina insieme ad Antonello Dose, è stato il primo da cui ho sentito la notizia dell’arresto. Diversi giorni dopo i fatti, Presta ha commentato alcune notizie che stavano arrivando in merito all’abbigliamento del boss, alle frequentazioni con le donne, ad altri racconti irrilevanti ai fini della costruzione del giudizio dell’opinione pubblica in merito ai crimini immondi di cui si è macchiato Denaro. “Ma cosa stanno scrivendo…”, si chiedeva il conduttore.
In mezzo, c’era anche la narrazione sulla presunta potenza del padrino. Un potere pressoché senza limiti di una persona che poteva decidere per la vita o la morte di chiunque; a capo di un esercito di millemila “picciotti”; ricco da far schifo. Una goduria per chi abbraccia i principi mafiosi e, sono certo, per lo stesso Denaro che in quella gloria ci sguazzava e ci sguazza ancora. A Napoli non a caso, hanno cominciato a vendere i cappotti che il boss indossava al momento dell’arresto. Chi si vuole imitare? L’uomo ricco e potente o quello che scioglie i bimbi nell’acido? Perché non c’è l’uno senza l’altro. Ma del primo abbiamo avuto una narrazione giornalistica ricca e romantica, del secondo ho visto poche rappresentazioni in pochi giornali e programmi tv. E aggiungo che in soli due casi ho letto definizioni di Messina Denaro fuori dai soliti schemi: Maniaci, con i suoi coloriti “Soldino” e “Pezzo di m…”; Antonio Irlando con un editoriale su il Gazzettino vesuviano con “re degli schifosi”.
Io stesso sono caduto più volte nel tranello, perché raccontare del potere senza limiti di mafiosi, camorristi e narcotrafficanti piace molto a quelli che scrivono, e leggerne piace moltissimo a chi compra i giornali o guarda gli approfondimenti in tv. L’ho fatto con un narcos capace di comprare due Van Gogh, e non so se lo rifarei nonostante le parole che sto scrivendo. Non lo so perché sono umano. E ricapiterà, perché siamo umani, anche se professionisti.
E allora c’è una sola cosa da fare, imporci di non farlo. Auto-imporci come Ordine dei Giornalisti, come etica, di non glorificare assassini, stragisti e gente che dovrebbe portare in fronte il solo marchio della vergogna, una volta che un Tribunale li ha ritenuti colpevoli. Altro che potere, altro che ricchezza: solo miserabili che hanno rapito un bambino innocente, lo hanno incarcerato per anni e che poi un giorno lo hanno preso in braccio e gettato in un barile pieno di acido. Ricordare solo questo, anziché rammentare il ruolo di generale di un esercito, potrebbe aiutare tutti. Come operatori dell’informazione, insomma, mettiamo queste persone al 41-bis. Una sorta di “carcere duro” della stampa che aiuti i lettori e l’opinione pubblica a comprendere chi sono i mafiosi, di quali crimini si sono macchiati, cosa significa per un uomo (o una donna) condurre una vita del genere. E no, nessuna censura: i fatti si possono raccontare anche senza glorificare. Basta volerlo.
Francesco Ferrigno