Una tangente da 200mila euro, chiesta dagli emissari del clan D’Alessandro ad un imprenditore edile dell’area stabiese per dei lavori da effettuare a Castellammare di Stabia. E’ un nuovo filone dell’inchiesta aperta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, impegnata a far luce sui business e gli interessi della camorra stabiese. L’episodio compare nello stralcio del processo Olimpo, che vede alla sbarra i vertici del clan egemone a Castellammare.

Castellammare, processo “Olimpo”: il caso della tangente da 200mila euro

Le attenzioni dei magistrati si sono soffermati proprio su questa richiesta estorsiva da 200mila euro, che sarebbe stata decisa dai vertici del clan D’Alessandro. Si tratterebbe ad ogni modo soltanto di un episodio di una lunga serie, sul quale adesso si sono accesi i riflettori della magistratura. L’obiettivo è quello di fare piena luce sul racket delle estorsioni, che nella città stabiese vede come vittime imprenditori, commercianti e (secondo le ultime rivelazioni dei collaboratori di giustizia) anche professionisti autonomi.

E proprio nei giorni scorsi si è svolta la prima udienza del processo che vede alla sbarra, tra gli altri, i capi degli scanzanesi. A partire da Teresa Martone (moglie dell’ex e defunto capoclan Michele D’Alessandro), continuando con i figli Vincenzo e Pasquale D’Alessandro, fino ad arrivare ai “colonnelli” Sergio Mosca e Paolo Carolei. Tra gli imputati c’è anche Liberato Paturzo, ritenuto dagli inquirenti il costruttore di fiducia del clan D’Alessandro. Secondo i pentiti, Paturzo era l’anima imprenditoriale della cosca del rione Scanzano. A parlare di Paturzo è stato anche il pentito Pasquale Rapicano. Stando ai verbali dell’Antimafia, “a Castellammare e a Gragnano i lavori pubblici e privati erano roba sua. Paturzo vinceva tutti gli appalti”.

La riscossione del pizzo imposto a centinaia di imprese

Ai colonnelli della cosca sarebbe stata affidata invece la riscossione del pizzo imposto a centinaia di imprese. Un sistema di finanziamento costante, che obbligava tanti a pagare finanziando in silenzio il “sistema” a Scanzano. Gli inquirenti contestano il sistema messo in atto dalle cosche locali, che vessavano imprenditori e commercianti anche ripetutamente nel tempo, assoggettando le vittime con minacce e atti camorristici finalizzati a convincere chi tentava di non pagare il pizzo. Un sistema messo in atto non solo dai D’Alessandro, ma anche dal clan Cesarano, attivo nella zona del rione Ponte Persica e nella periferia cittadina.

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