Frisc’ all’anema ‘e tutte ‘e muorte: il due novembre, giorno dedicato alle anime dei defunti

Una vecchia tradizione anche dell’area vesuviana, ora non più seguita, prevedeva che le anime dei defunti nella notte tra l’1 e il 2 novembre si recassero nelle case dei parenti dove trovavano la tavola apparecchiata

Frisc' all'anema 'e tutte 'e muorte: il due novembre, giorno dedicato alle anime dei defunti

Se il principe De Curtis, Totò, fosse vissuto duemila anni fa, altro che “ogni anno il due novembre”. La “Livella” al tempo dei romani cominciava il 13 febbraio e finiva il 21 dello stesso mese. E questo perché febbraio era l’ultimo mese dell’anno romano e il ricordo dei defunti cominciava con i Parentalia, allorché venivano ricordati i morti di famiglia davanti all’altarino casalingo dei Lari. I fiori che servivano per omaggiare i defunti venivano venduti perlopiù da fiorai con posto fisso; gli ambulanti, che invece portavano la loro mercanzia nelle aree cimiteriali, erano detti coronari o rosari.

Finivano, i giorni dedicati ai defunti, con i Feralia, l’ultima e più solenne giornata, appunto il 21 del mese di febbraio. In quei giorni si facevano sacrifici con animali di colore nero, si offrivano fave all’ospite e si beveva “alla salute” del defunto tenendo il bicchiere con la mano sinistra. In quel periodo, nelle case romane, si mettevano in atto riti magici finalizzati ad allontanare gli spiriti malvagi. Uno di questi prevedeva che la padrona di casa, circondata da qualche ragazza, metteva tre grani d’incenso sotto la porta per evitare l’ingresso in casa agli spiriti nemici, quindi si legavano a un fuso di legno scuro alcuni fili di lana e si mettevano in bocca sette fave nere. Ma non finiva qua.

C’era ancora da buttare al fuoco una testa di pesce, la cui bocca era stata cucita con un amo di rame e il tutto veniva bagnato con dell’ottimo falerno. Quello che restava, doveva essere bevuto, per buon auguri della casa, dalla matrona che aveva presieduto il rito e dalle sue aiutanti. Oggi come allora questo legame forte con i parenti trapassati, in Campania, è sempre molto forte. I cimiteri sono meta di peregrinazioni e sofferenze. E, anche chi è morto senza lasciare qualcuno che lo ricordi trova sempre gli porta un fiore o ne cura i resti come fosse parente stretto. Un esempio emblematico è il cimitero delle Fontanelle a Napoli, o quello delle anime pezzentelle di Purgatorio ad Arco, in via dei Tribunali, dove sono raccolte le ossa dei morti delle varie ondate seicentesche di colera, che vengono accudite e pulite dai vivi che sono stati scelti dal defunto.

Una vecchia tradizione anche dell’area vesuviana, ora non più seguita, prevedeva che le anime dei defunti nella notte tra l’1 e il 2 novembre si recassero nelle case dei parenti dove trovavano la tavola apparecchiata con acqua, pane, pezzi di stoccafisso e baccalà, in modo che potessero rifocillarsi per il viaggio fatto dall’aldilà e per quello che avrebbero intrapreso poi, per ritornare nel mondo “dei più”. Usanze, tradizioni, credenze, ma più amore per i propri cari trapassati che oggi si estrinseca tutta con l’andare al cimitero (e non ci sono più i venditori di corbezzolo: ‘e ssovere pelose, frutto dei morti) a portare qualche fiore e restare un poco a fare compagnia ai cari che non ci stanno più…“ogni anno il due novembre c’è l’usanza / per i defunti andare al cimitero/ ognuno ll’ha dda fa’ chesta crianza / ognuno ll’ha dda tene stu penziero” recita una delle più belle poesie scritte da Totò…Frisc’ all’anema ‘e tutte ‘e muorte.

Carlo Avvisati

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