Il bianco e nero di Kertész a Torino

Più di 150 immagini, realizzate tra il 1912 e il 1982, ripercorrono la vita e la carriera del fotografo nato a Budapest

“Kertész ha due qualità che sono essenziali per un grande fotografo: un’insaziabile curiosità sul mondo, sulle persone e sulla vita, e un senso preciso della forma”. Con queste parole, il celebre collega Brassaï ha descritto André Kertész, uno dei maestri della fotografia del XIX secolo.

La sua opera è al centro di una mostra imperdibile, allestita negli spazi di CAMERA, il Centro Italiano per la Fotografia di Torino fino al febbraio 2024.

Al visitatore viene offerta un’esperienza di immersione totale nel mondo della fotografia come forma d’arte a sé stante, che registra la realtà e i temi della vita attraverso l’obiettivo di chi la guarda con occhi diversi.

Più di 150 immagini, realizzate tra il 1912 e il 1982, ripercorrono la vita e la carriera del fotografo nato a Budapest, dalle prime foto amatoriali scattate durante le escursioni giovanili nelle campagne ungheresi, e negli anni della Prima Guerra mondiale. Già allora dimostra di apprezzare le qualità del mezzo fotografico senza bisogno di costruire o forzare le immagini che il suo sguardo cattura, perché il mondo gli si presenta in tutta la sua ricchezza e la macchina fotografica si dimostra capace di coglierla.

Tra i soggetti preferiti dei primi scatti si trovano spesso gli amici e i familiari con cui amava trascorrere il tempo libero. Uno dei più evocativi (“Il fauno danzante”) regala ai posteri l’immagine del fratello Jenö, “che aveva il corpo del bell’atleta che era e una testa da fauno”, e che appare in tutta la sua possente mascolinità in un tutt’uno con la natura.

Archiviata l’esperienza della guerra, che esorcizza ritraendo la vita quotidiana dei soldati senza interesse per gli aspetti drammatici del conflitto, Kertész fa della fotografia la sua professione e approda a Parigi nel 1925. La capitale francese è una fonte di ispirazione costante e lo avvicina a personaggi che hanno lasciato un segno profondo nella storia della cultura del Novecento (tra gli altri, Kiki de Montparnasse, musa degli artisti dell’epoca, e il pittore olandese Mondrian, i cui occhiali e la pipa compongono una originale natura morta). Ma anche le scene di strada diurne e notturne sono, per Kertész, occasioni preziose per ricercare la vera natura delle cose, l’interiorità e la vita.

L’ultima parte della mostra coincide con un’altra, lunga fase della sua esistenza, trascorsa oltreoceano in una New York che, negli anni Trenta, è il centro della scena museale e galleristica americana e capitale dell’industria editoriale. Qui, il fotografo continua la sua ricerca tornando su temi già affrontati, ma anche documentando le peculiarità della metropoli statunitense: le nuove architetture, i nuovi panorami cittadini, i nuovi stili di vita.

Nello scatto “Nuvola smarrita”, il profilo di un grattacielo sovrasta una piccola nube creando un contrasto tra le due masse. L’architettura americana era tutt’altro che familiare per l’Europa di quegli anni, e anche per lo stesso Kertész, che sembra quasi identificarsi con la nuvola in quanto solo e diverso in un contesto a lui sconosciuto. “Quello che ho provato quando ho scattato questa foto”, dichiara, “è stata un’impressione di solitudine; l’architettura è completamente isolata dalla natura, non comunicano affatto, e la nuvola non sa dove stare. L’hanno persa o le hanno fatto perdere la strada”. Malgrado molte sue foto rivelino l’influenza della scuola di fotografia di New York, un certo surrealismo sviluppato in Europa rimane la cifra stilistica di un artista radicato nel suo continente di origine.

Gli ultimi scatti del ricco percorso espositivo della mostra testimoniano una volontà di sperimentazione mai venuta meno nella vita di Kertész. Dopo la morte della moglie Elisabeth, nel 1977, l’artista concentra le sue energie in un nuovo apparecchio fotografico, la Polaroid sx70. La facilità con la quale padroneggia la macchina e il nuovo modo di fotografare, passando dal bianco e nero al colore, lo aiutano ad affrontare la tristezza della perdita e a uscire da una condizione di depressione, recuperando lo spirito di ricerca del giovane fotografo. Combina soggetti personali e nature morte suggestive sullo sfondo di paesaggi urbani, riflessi e superfici di vetro. Anche una semplice Polaroid esalta il genio di Kertész, che esplora il tema dell’assenza giocando con i riflessi e le trasparenze, servendosi di oggetti di vetro e di un busto di cristallo che gli ricorda la silhouette della moglie.

È l’ultimo capitolo significativo nella carriera di un artista straordinario che si dimostra riconoscente all’Europa donando alla Francia, un anno prima della morte, avvenuta nel 1985, la sua corrispondenza e i suoi negativi, lasciandoci un patrimonio fotografico che continuiamo ad ammirare nella sua intramontabile unicità.

Viviana Rossi

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