Diciamocelo subito: “Quann trmont o sol è tutt cos… O sol miji sta nfrnt a te o Arpt fnest lass ffccia a Marijia o, ancora, quann mammt ta fatt vuo sape comm facett… nu panar chin chin tutt fravul e ciardn” non è napoletano. È giargianese, forse. Ma, nemmeno. È n’ata lengua. È n’ata cosa. Sono suoni gutturali. Al di là di ogni polemica sulla voce, sulla maniera di cantare, sul rap, trap, prep, crop e plop (le ultime tre sono: una pomata, nonsense, ma tutte assonanze e consonanze: e mo andatevi a vedere su un dizionario della lingua italiana che vogliono significare queste due paroline) e via discorrendo che fa Geolier, sul quale non mi permetto di fare osservazioni.
Sanremo, il “caso” del testo della canzone di Geolier
Anzi, affermo che a mio avviso può cantare anche in marziano, che è la lingua ancora sconosciuta di Marte, se gli fa piacere e se piace ai suoi fan. Per me va benissimo. Così come va benissimo che canti quella canzone pietra dello scandalo, che andrà a Sanremo. Di più gli auguro di vincere il festival, anche se a me poco o niente interessa, questa competizione. Il problema, come hanno fatto notare anche altre, e più di quella del sottoscritto, autorevoli voci della napoletanità, è la forma della scrittura del testo: sgrammaticato, sintatticamente sbagliato, goffo, graficamente assurdo.
Un omicidio linguistico. insomma. Il napoletano, dialetto, perché non è ancora una lingua, nonostante qualcuno si ostini a far girare la palla che l’Unesco lo abbia eletto a dignità linguistica, non si scrive così. Si scrive in altro modo. Bisogna studiare. Come per l’italiano. Per questo siamo andati a scuola, da piccoli. Ricordo gli anziani, quando qualche volta andavo in comune, che mi chiedevano: “giuvinò me vulite scrivere sta carta, songo gnurante, nunnn aggio iuto â scola, mannaggia a mme”. È necessario dunque conoscere parole, espressioni, verbi, per costruire delle frasi. Chi ha poche parole nel suo personalissimo vocabolario parla male, pensa peggio e non capisce quando legge.
Non è napoletano, è rrobba mmescata
Questo vale anche per il napoletano. Dice: la lingua si evolve. Certo. D’accordo. Da Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Murolo, Ferdinando Russo a Carosone ci sta mezzo secolo ma don Renato Carosone non si sarebbe mai sognato di scrivere un testo del genere di quello mandato a Sanremo. Carosone è stato per la poesia e la canzone e per la musica napoletana quello che i Beatles sono stati per la musica mondiale: ha svecchiato tutto, lo ha sdoganato come linguaggio nuovo. Ma ha sempre scritto in maniera corretta, grammaticalmente e sintatticamente, i suoi testi. E anche i vocaboli erano e sono gli stessi che scrivevano Basile, Velardiniello, due tra i grandi padri di questo dialetto gentile. Lo stesso Pino Daniele, grandissimo poeta, perché le canzoni di Pino sono poesia pura, non ha mai aggredito la lingua / dialetto napoletano. Non è questione di quartieri, di provincia e di puzza sotto il naso. Se scrivi in una lingua devi rispettarla.
Altrimenti ti prendi tutte le critiche possibili e immaginabili. E non dite, a scusante del cavolo, che la lingua si evolve. Certo che si evolve. Si evolve nelle parole nuove, nelle frasi, non nella grafia. Se scrivo una parola, quella vale e non vale “s scrv na prol chll val”, tanto per dire. altrimenti chiudiamo baracca e burattini e andiamo via. Se un chirurgo non mette i punti perbene quando opera …doppo se scose tutto cosa. Così è per il dialetto: o lo scrivi come va scritto o altrimenti non è il dialetto… nunn’è nniente. Songo lettere ‘e ll’arfabbeto mettute a ccapa ‘e mbrello. E se non lo si sa scrivere, lo si studia. Se no finisce tutto e chi fa il mestiere di divulgatore di fatti e cultura è mmeglio ca se mette a vvennere panzarotti e ppalle ‘e riso… s’abbosca cchiù assaje e ffernisce e se stracquà a vvacante cu ‘e ccape ‘e lignammo.
Carlo Avvisati