Nelle scorse ore Robert L., 33enne straniero, si è tolto la vita nel carcere di Napoli Secondigliano. L’uomo, in cella per omicidio, era balzato agli onori della cronaca nell’agosto del 2019 per essere stato l’unico detenuto evaso da Poggioreale in cento anni di storia. Prima di lui altri 4 detenuti da inizio anno si sono suicidati in Campania. Se si allarga la prospettiva, il dato è ancor più sconcertante: nel 2024 in Italia è 23 il totale dei suicidi. Per provare ad affrontare il fenomeno nella giusta prospettiva abbiamo intervistato Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale.
Dottor Ciambriello, il quinto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno accende i riflettori su un’emergenza che richiede risposte concrete. Quali sono i primi interventi che le istituzioni dovrebbero attuare?
Rafforzare i servizi di assistenza psicologica e psichiatrica, è fondamentale aumentare il numero di psicologi e psichiatri in carcere, garantendo un supporto adeguato ai detenuti con fragilità mentali. Potenziare i programmi di reinserimento sociale, offrire percorsi di formazione e lavoro per preparare i detenuti al ritorno alla vita fuori dal carcere, contrastando il senso di sconforto e inadeguatezza.
Migliorare le condizioni di vita in carcere, ridurre il sovraffollamento, garantire spazi adeguati e igienici, favorire attività ricreative e sportive. Assicurare un maggiore controllo e prevenzione, incrementare la formazione del personale penitenziario per identificare i detenuti a rischio e intervenire tempestivamente.
Il caso di Robert L., detenuto per omicidio, ci porta a riflettere sulla percezione esterna del fenomeno. Come si può evitare che i suicidi in carcere vengano considerati un’emergenza di secondo piano?
È fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravità di questa problematica. Informazione e media possono giocare un ruolo chiave nel promuovere una discussione seria e costruttiva, contrastando l’idea che il carcere sia un luogo dimenticato dalla società.
L’informazione e i media possono fare di più per sensibilizzare sul tema?
Assolutamente sì. Approfondimenti, reportage e inchieste accurate possono contribuire a far luce sulle reali condizioni all’interno delle carceri e sulle sofferenze dei detenuti. Dare voce alle storie di chi ha vissuto questa esperienza può aiutare a comprendere meglio la complessità del problema e stimolare un cambiamento.
L’età media delle vittime in Italia è inferiore ai 40 anni. Cosa ci dice questa statistica?
La giovane età evidenzia una fragilità ancora più accentuata. I più giovani possono essere più vulnerabili all’isolamento, al senso di colpa e alla mancanza di prospettive future. È fondamentale intervenire con misure specifiche per supportarli e aiutarli a superare le difficoltà.
In conclusione, la drammatica realtà dei suicidi in carcere richiede un impegno urgente e concreto da parte di tutte le istituzioni. Solo attraverso un’azione sinergica ed una maggiore attenzione al tema si potrà arginare questa emergenza e tutelare la dignità e la vita di chi si trova in carcere.
È importante ricordare che il carcere non deve essere un luogo di morte, ma di speranza e di riscatto quindi di rieducazione che può solo passare ed esprimersi attraverso una campagna di reclutamento strutturale di figure professionali atte al benessere psicofisico dei ristretti come psicologi, psichiatri, educatori, mediatori penali e non solo, oltre a corrette e mirate campagne di formazione dell’attuale personale penitenziario.
Francesco Ferrigno