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“Pasca”: il territorio vesuviano e la Pasqua di oltre 60 anni fa

“Pasca”, questo il titolo del capitolo dedicato appunto alla Pasqua dal giornalista e scrittore, ma soprattutto caro amico e collaboratore de il Gazzettino vesuviano, Carlo Avvisati, nel libro “Profumo d’Antico“, “Scene da un territorio: mestieri, botteghe, personaggi, feste e tradizioni dell’area vesuviana mezzo secolo fa”, edito proprio dalla nostra testata nel novembre del 2009.

Pasca

Era l’epoca in cui le lingue ai ragazzi le “mozzavano” i preti. Ovviamente, il taglio era solo una finta e le forbici venivano imitate con l’indice e il medio della mano. Non solo, frugando nei ricordi non è mai saltato fuori che un sacerdote abbia usato un’espressione del genere, nemmeno per gioco. Insomma era solo un modo di dire e minaccia ricorrente: “si nun ‘a fernisce ‘e dicere male parole ‘o ddico a ‘o prevete e te faccio taglia’ ‘a lengua” (se non la smetti di dire parolacce lo dico al prete e ti faccio tagliare la lingua) che arrivava dritta dritta da mamme e nonne quando sentivano che ci allenavamo a fare i grandi, dicendo e stradicendo qualche parolaccia (appunto ‘e mmale parole) appena imparata dal compagno più grandicello.

 

Era anche il tempo in cui, quasi tutti, almeno i maschietti, passavano per le sacrestie delle chiese per essere arruolati in qualità di chierichetti, ieveno a fa’ ‘e prevetarielle (il vocabolo è anche il nome dialettale di saporitissimi fagiolini) ovvero “andavano a fare i pretini”, si diceva. Tra le incombenze che il ruolo comportava, oltre a impegnare i ragazzi a servir messa, a suonare le campane al termine delle cerimonie e a seguire i funerali abbigliati di tutto punto, c’erano altri obblighi ben più leggeri e graditi. Tra questi, v’era quello di i’ appriesso a ‘o si’ prevete (seguire il signor prete: si’ è corruzione di “signore” e viene usato altresì con la forma zi’, ma in questo caso assume pure il significato di “anziano”) durante ‘a benerizìone d”e ccase (la benedizione delle case) nella Settimana Santa, a Pasca (Pasqua).

Don Aniello Tina in giro per benedire le case di Striano; da “Cultura di una comunità locale, Striano” di Salvatore D’Angelo, 1981

In genere si viaggiava in tre: il prete, che spesso era parroco e pure anziano, e due chierichetti. Uno dei due giovani aveva l’incarico di portare l’aspersorio con l’acqua benedetta; all’altro toccava il capace panaro (paniere) dove si mettevano le offerte: ova fresche (uova fresche), supressate (salami) e sorde ‘e carta (soldi di carta). In questo caso si trattava di qualche dieci lire; raramente, e solo quando si entrava in una casa ricca, arrivavano le cinquanta. Le monete, invece, venivano poste tutte nell’aspersorio. Ai ragazzi, di solito, toccava qualche tarallo ‘e Pasca (tarallo di Pasqua) appena sfornato, o ‘na vranca ‘e cunfiette (una manciata di confetti) perché “chiste so overe buoni guagliune” (questi son davvero bravi ragazzi), dicevano le vecchie dopo aver recitato le Aummarie: Aummarì razia pre Domisde … (le Ave Maria: Ave Maria piena di grazie il Signore è con te) di rito, e aver concluso con il classico Ammenne (Amen) le frasi benedicenti.

Spesso, a metà del giro, il panaro era già pieno e bisognava correre in parrocchia e consegnarlo al sacrestano perché lo vuotasse delle prelibatezze; ‘e sorde ‘e carta, per non indurre in tentazioni, li aveva già contati e messi da parte il sacerdote. Alla benedizione assisteva tutta la famiglia o almeno quella parte di essa che era presente in casa in quel momento. Non mancava, di solito, qualche vicina che chiedeva al parroco di poter anticipare la sua perché doveva andare a infornare ‘e casatielle (i casatielli, caratteristico dolce pasquale guarnito di bianco d’uovo spumato a meringa e diavulilli) altrimenti se scriscetava ‘a pasta (si sgonfiava la pasta). E se accadeva una cosa del genere era una vera e propria disgrazia.

Dopo quaranta giorni di astinenza (tutto il periodo della Quaresima) da carne, dolci (con l’unica eccezione di San Giuseppe, quando correvano, era uso che si approntassero, le gustosissime zeppole fritte e imbottite di crema gialla) e quant’altro di proibito dagli usi e costumi in vigore, era diventata spasmodica l’attesa per le pastiere di grano, i taralli col nàspero (glassa di zucchero) fatti in casa, casatielli, supressate, ova toste (uova sode), case e pepe (casatiello rustico cacio e pepe), tòrtano (altro rustico con uova sode, ciccioli, salame) e frittata ‘e maccarune (frittata di maccheroni) con uova, pepe e sugna.

Processione del Cristo morto a Boscoreale

Avevi voglia di invitare alla moderazione! C’era poi quell’ultima settimana, con i riti religiosi: Passione, Quarant’ore, processione del Cristo morto, i Sepolcri… che davvero mettevano addosso ai ragazzi – sia detto senza alcuna irriverenza – una malinconia terribile. Perché chi tra i giovanissimi seguiva le funzioni lo faceva sentendo veramente una sorta di dolore antico e partecipava con tutto l’animo. Ovviamente, la funzione più tragica era quella che prevedeva la processione del Cristo morto, seguito dalla Madonna piangente, per le strade del paese. Per qualche anno tra la fine del 1950 e gli inizi del 1960 – si ricorda anche una rappresentazione della Via Crucis con soldati vestiti come gli antichi romani, con cavalieri e cavalli (c’erano ancora), giudei e Cristo a trasportare la croce. Poi, più nulla, eccetto la funzione classica, con le campane che si azzittivano per tre giorni.

Due pasticcieri di Boscoreale mente approntano e decorano un dolce pasquale

Ecco perché si aspettava la domenica, quando si poteva riprendere la vita normale visto che c’era stato il “passaggio” (Pasqua, dall’ebraico Pesah significa appunto “passaggio”) dalla morte alla vita. E allora era festa. La Festa! Che ammetteva ogni ben di Dio: dai pàccari (paccheri, un tipo di pasta) al ragù, alla carciòffola arrustuta (carciofo arrostito), al crapetto ‘nfurnato (capretto al forno), alla fellata ‘e salame (affettata di salame), al vino, a litri. Insomma un pranzo dove non doveva mancare il latte della formica.

Quanto restava della pastiera, del salame, del formaggio, serviva il giorno successivo, il lunedì in Albis. Le mete della classica scampagnata (per chi ne aveva voglia: e chi tra i ragazzi non l’aveva?) erano due: il Vesuvio e la Giuliana. Di solito, chi andava al Vesuvio si sparpagliava nella folta pineta poco prima delle “catene”: l’ingresso alla via privata, costruita dall’ingegnere Gennaro Matrone e appunto custodito da una catena che impediva il passaggio alle automobili, se prima non pagavano il pedaggio.

La chiesetta della “Giuliana” in contrada Civita Giuliana.

Chi, invece, sceglieva la “Giuliana” (Civita Giuliana) raggiungeva la località a piedi (meno di un chilometro), seguiva la messa nella chiesetta e dopo andava a vedere come i grandi giocavano, puntando soldi, a ‘o tombolo: una boccia di legno che doveva entrare nella fossetta centrale di un’area rettangolare, in cui stavano in tutto nove buche, con un canale all’inizio (‘o màfaro).

E qua c’è da spiegare il perché del vocabolo màfaro che in napoletano vuol significare anche il “posteriore”, per dirla con un eufemismo, e quindi la Fortuna con la “Effe” maiuscola. Chi tirava la palla di legno, se riusciva a centrare con quell’unico lancio il màfaro era davvero fortunato e vinceva tutta la posta in gioco. Altrimenti poteva effettuare un altro lancio dal punto in cui s’era fermata la boccia. Insomma il golf di oggi è il figlio fortunato del tombolo antico.

Che màfaro, tenevano i ragazzi di oltre 60 anni fa: chili di felicità a poco prezzo.

Carlo Avvisati

Chiunque fosse interessato ad acquistare una copia del libro “Profumo d’Antico” può scrivere a il Gazzettino vesuviano all’indirizzo di posta elettronica:

redazione@ilgazzettinovesuviano.com

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