Il Gazzettino vesuviano | IGV

L’energia che genera bellezza

vesuvio eruzione 1906

Un richiamo costante alla piccolezza umana, al vivere sospesi tra paura e stupore, consapevoli che la passionalità che sembra sprigionarsi dalle sue viscere e la pericolosità incombente riescono sempre ad avere la meglio sulla razionalità, confermando l’importanza del “qui e ora”, del vivere pienamente ogni istante.

In ogni epoca, le cronache delle eruzioni del Vesuvio evocano le stesse, forti emozioni, raccontando con dovizia di particolari – lo fece Norman Lewis, un giovane ufficiale dell’esercito inglese, descrivendo l’eruzione del 1944, e, molto prima di lui, Plinio il Giovane documentando quella del 79 d.C. – le lingue di fuoco che scesero per giorni, senza interruzione, dalla bocca del vulcano, seppellendo ogni cosa, e il manto grigio che ricoprì tutto, distruggendo gran parte di San Sebastiano e di Somma Vesuviana. I ricordi del suono cupo e assordante che precedette l’eruzione, e di tutto ciò che ne seguì, sono indimenticabili, e hanno la stessa tragicità e crudezza di una cronaca di guerra.

Non è strano, né raro, però, che l’energia vulcanica si traduca in bellezza. È il caso di Oplonti, sepolta dagli strati di cenere e lava che la ricoprirono nel 79 d.C. insieme a Pompei e ad Ercolano, e riemersa a seguito degli scavi iniziati nel Settecento, che hanno riportato alla luce una parte della dimora di Poppea, amante e seconda moglie dell’imperatore Nerone. Attorno ai resti della villa imperiale di Oplonti, costruita nel I secolo a.C. in quello che era il sobborgo aristocratico di Pompei, è sorta l’attuale Torre Annunziata. In questa zona, i patrizi romani costruivano le loro ville vicino al mare per godere dell’aria salubre e per dedicarsi ai piaceri del corpo e dell’anima.

La vicina Pompei sa dare meglio di qualunque altra città partenopea la misura della potenza del vulcano. Il risveglio dall’eruzione che la fece precipitare nell’oblio spazio-temporale, e che congelò per sempre la vita di uno dei centri più pulsanti dell’antichità, l’ha fatta diventare non solo un grande museo archeologico a cielo aperto, ma anche una fonte di energia capace di restituire ai ricordi più drammatici una parvenza di leggerezza.

Passando per il centro storico di Napoli, epicentro dell’energia che emana dal Vesuvio, seguendo la sua scia, si arriva nel cuore dei Campi Flegrei, che dicono molto di sé già dall’etimologia del loro nome di origine greca (incandescenti, ardenti), e che sono noti sin dai tempi antichi per identificare un’area vulcanica attiva situata nel golfo di Pozzuoli. Anche qui, come a Oplonti, Pompei ed Ercolano, l’anfiteatro Flavio, il terzo più grande costruito dai Romani, ha restituito alla modernità la connotazione più positiva della presenza del Vesuvio.

Inaugurato dall’imperatore Tito nello stesso anno della grande eruzione del 79 d.C., dopo essere stato a lungo reclamato dai cittadini impazienti di assistere a spettacoli straordinari e feroci, si è rivelato, a seguito degli scavi archeologici, un’opera architettonica all’avanguardia. Le sue gallerie sotterranee, realizzate per portare in superficie uomini, animali e scenografie, nascondevano soluzioni ingegneristiche capaci di generare un impatto visivo sorprendente. Così come il collegamento diretto con l’acquedotto flegreo, che permetteva di allagare l’anfiteatro, trasformandolo nello scenario delle naumachie, le battaglie navali tanto apprezzate dagli antichi romani.

In quest’area, oggi come allora, il suolo subisce una lenta trasformazione (nei primi anni 2000, il sollevamento del suolo ha interessato la parte centrale del territorio di Pozzuoli, causando una deformazione massima di 120 cm) e il fenomeno del bradisismo si accompagna ai terremoti.

Eppure, se è vero, come sostenevano gli antichi, che la filosofia nasce dalla meraviglia e dallo stupore, solo riempiendosi lo sguardo della bellezza dei luoghi dominati dal Vesuvio, se ne può cogliere l’energia più sublime.

Viviana Rossi

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