Testimoniare il passato per sottrarre all’oblio realtà che il tempo e la memoria condivisa rischiano di far scomparire per sempre. È quello che accade quando fenomeni come i terremoti aprono ferite insanabili nella terra e nella vita delle persone che abitano luoghi, edifici e intere città, destinati a rimanere disabitati o a resistere, trovando la forza per rinascere.
Come Romagnano al Monte, un piccolo centro montano in provincia di Salerno, arroccato su una collina a 650 metri sul livello del mare, al confine tra Campania e Basilicata, considerato storicamente strategico rispetto agli altri comuni della zona proprio per la sua posizione sopraelevata.
Anche qui, la forza distruttiva del terremoto dell’Irpinia del novembre 1980 – che si abbatté su Campania, Basilicata e Puglia, e che si manifestò con più forte intensità rispetto a quello dell’Aquila del 2009 e di Amatrice nel 2016 – costrinse gli abitanti ad abbandonare il borgo antico e a ricominciare la propria vita a due chilometri di distanza, in quella che oggi è la nuova Romagnano.
La distanza di 70 chilometri dall’epicentro del sisma fece sì che tra le 3000 vittime di uno degli eventi che cambiarono il destino non solo del borgo ma dell’intera area dell’Irpinia, ci fossero anche gli abitanti di quello che è definito “paese fantasma”, incluso nel novero dei 280 comuni danneggiati dalle violente scosse e dei 36 rasi al suolo.
Il vecchio borgo si trova in una posizione impervia, raggiungibile attraverso una strada a rischio frane, sovrastata dal costone di roccia su cui fu costruito, e non è più accessibile per motivi di sicurezza. A testimoniare la sua storia recente, rimasta ferma a quel giorno di novembre, sono i resti delle case, del municipio e della chiesa del Santissimo Rosario, crollata e ricostruita dalle fondamenta nel nuovo paese. Ma aleggiano anche le poche reminiscenze di un’epoca più remota, quella in cui la zona era nota come “fundus romagnanus”, forse dal nome della famiglia patrizia a cui apparteneva, seguita da secoli di pestilenze, carestie, brigantaggio ed eventi sismici.
Dopo il terremoto, gli abitanti che popolavano il borgo antico furono costretti a vivere per un anno nelle roulotte e poi negli chalet di legno inviati dal Trentino-Alto Adige prima di vedersi assegnare le loro nuove, vere case nel 1996, dopo venti anni di attesa. Agli aiuti economici per la ricostruzione (oggetto di polemiche per la poca chiarezza sull’impiego dei fondi stanziati per l’Irpinia) e all’arrivo di forze militari specializzate anche dall’estero, si unì l’opera volontaria e preziosa dei giovani del tempo, arrivati da tutta Italia per dare il loro aiuto fattivo, mossi dalla volontà di fare la differenza e, pur nella drammaticità del momento, di sentirsi coinvolti in un’esperienza di accrescimento umano che li avrebbe segnati per tutta la vita.
Oggi, l’area che è stata il primo insediamento provvisorio di Romagnano dopo il sisma, non ha, per fortuna, avuto la stessa sorte del vecchio borgo, trovando la sua ragione d’essere nel progetto che l’ha riportata a nuova vita. Le casette che, dopo il sisma, accolsero gli abitanti sfollati sono state ristrutturate per diventare delle seconde case, e per essere affittate ai turisti che scelgono questi luoghi per la tranquillità e l’aria buona.
Un piccolo paese dove l’agricoltura e la pastorizia erano, un tempo, le uniche attività praticate dalla popolazione, e dove oggi continuano a regnare sovrani la macchia mediterranea e i campi coltivati, in un contesto profondamente segnato dalle sue ferite, ma vivo.
Viviana Rossi